Luciano Chailly, il compositore di Paolo VI
Luciano Chailly, nato 100 anni fa a Ferrara, fu il compositore contemporaneo che meglio seppe interpretare il rinnovamento della musica sacra ai tempi di Paolo VI. Per la sua Missa Papæ Pauli non si è servito della tecnica dodecafonica, caratteristica di molti altri suoi lavori, ma è ricorso a un linguaggio complesso, armonico e melodico.
Esattamente cento anni fa – il 19 gennaio 1920 – a Ferrara nasceva Luciano Chailly, «un eccellente compositore d'avanguardia – dice suo figlio, Riccardo Chailly, dal 2015 direttore musicale al Teatro alla Scala di Milano –. Sono cresciuto con la sua musica, ascoltando le prove che si facevano in casa con i cantanti lirici» (La Repubblica del 30 gennaio 2011).
Scorriamo i cenni biografici più rilevanti di Luciano Chailly e ci appare una figura poliedrica: i diplomi in violino a Ferrara e in composizione al Conservatorio di Milano e la laurea in lettere all’università di Bologna; quindi il corso di perfezionamento nel 1948 a Salisburgo con Paul Hindemith, uno dei principali compositori tedeschi prima della Seconda guerra mondiale, il cui esempio si rivelerà per lui decisivo; e poi ancora, oltre all’impegno di compositore, quello di insegnante di composizione al Conservatorio di Milano, di capo servizio musica presso la direzione generale della RAI-TV di Roma, di autore di studi musicologici, romanzi, racconti e novelle, di critico cinematografico e musicale, nonché di direttore artistico del Teatro alla Scala (tra il 1968 e il 1971) e di altri enti lirici.
Il suo catalogo conta opere teatrali, composizioni orchestrali e vocali-orchestrali e musica da camera. Nel 1964 compone la Missa Papæ Pauli, per coro a 6 voci, campane e orchestra, in onore di papa Paolo VI appena eletto. Il titolo riprende la Missa Papæ Marcelli, la più famosa messa di Giovanni Pierluigi da Palestrina, che intorno al 1564 — grandiosa, intellegibile nel testo, informata di profondo sentimento religioso com’era — divenne il modello appropriato per la riforma della musica sacra vagheggiata al Concilio di Trento.
Purtroppo, quattro secoli più tardi, nonostante la riflessione di Paolo VI sulla missione degli artisti del nostro tempo e sul loro rapporto con la Chiesa, ben altri furono i modelli musicali — e non solo quelli — dopo il Concilio Vaticano II. Poteva Chailly escogitare che, pochi anni dopo la composizione della sua Missa, si sarebbe promulgata la nuova Messa (3 aprile 1969)? O che, a proposito della riforma liturgica, si sarebbe parlato «in certi punti, di una vera nuova creazione, dato che l’immagine della liturgia data dal Concilio Vaticano II è completamente differente da quella che la Chiesa cattolica ha avuto finora» (A. Bugnini, Dichiarazione alla stampa, 4 gennaio 1967, ne La Documentation Catholique, n. 1491, 1967, col. 824)? O che si sarebbe scritto che «la riforma liturgica è una grande conquista della Chiesa cattolica con proiezioni ecumeniche… una specie di battistrada» (A. Bugnini, Notitiæ 92, aprile 1974, p. 126, MD p. 81)?
Novi homines creatori di novas res, «come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio» (Paolo VI, Discorso ai membri del Pontificio Seminario Lombardo, 7 dicembre 1968), nemmeno il nostro compositore, che pure in uno scritto della rivista trimestrale fondata nel 1964 da Domenico Bartolucci — sospesa poi nel 1967 per evitare imbarazzi — si pose la domanda È possibile un rinnovamento di linguaggio nella musica sacra? (L. Chailly, in Cappella Sistina, n. 8, 1965 pp. 164-166). Al riguardo, disse anche: «Il problema dell'aggiornamento del linguaggio in tale genere era stato posto già da Pio XII nell’enciclica Musicae sacræ disciplinæ: “questa nobilissima arte anche ai nostri giorni sia coltivata e sempre più perfezionata”. Ma c'erano dei colleghi compositori, come Riccardo Malipiero, che non avevano avuto mai il coraggio di affrontarlo. Non era facile, perché occorreva conciliare il proprio sistema compositivo (e quindi il proprio stile) con certi dettami espressivi della tradizione liturgica e adeguare la tecnica della moderna vocalità (tendente a violare, escluse le correnti conformiste, le leggi naturali della vocalità stessa) con gli alti contenuti dei testi sacri, che richiedevano quella comunicabilità che lo stesso Paolo VI invocava con le parole: “L'arte deve essere intuizione, deve essere facilità, deve essere felicità. Non deve lasciare sorpresi, intimiditi e distaccati”» (L. Chailly, Le variazioni della fortuna: storie di un musicista, Camunia, 1989, pp. 87).
Lo stesso Luciano Chailly, che nel Settembre del 1965 aveva già portato di persona la partitura al papa nella residenza estiva di Castelgandolfo, ricorda quel 12 Aprile 1967, in cui fu ricevuto in Vaticano con tutta la famiglia per la consegna della registrazione della Missa, eseguita per la prima volta a Parigi per la radio e poi al Foro italico di Roma: «E venne il giorno in cui i miei quattro di famiglia (Anna Maria e i tre figli) si prepararono accuratamente con un look di circostanza, austero e severo, perché si andava dal Papa. Arrivammo a piazza San Pietro. Passammo tra il portone di bronzo e la Sala Regia, mentre la guardia palatina, col colbacco ottocentesco e l'uniforme color vino, usciva in manovra, schierandosi poi con l'arme al piede. Salimmo gli scaloni e attraversammo saloni in cui aleggiavano gli spiriti di Bramante, di Michelangelo, del Bernini fino a che ci fecero entrare nella sala del trono. Eravamo molto emozionati, almeno mia moglie ed io. Le mani bianche di Paolo VI ricevettero dalle mie il nastro magnetico della Messa a lui dedicata. E se debbo esser sincero - anche se non è che mi aspettassi grandi effusioni - rimasi piuttosto deluso dell'atteggiamento abbottonato e statuario del Pontefice. Era stato più cordiale quando gli avevo consegnato a Castel Gandolfo la partitura. Le poche parole che disse le disse con l’accento bresciano che contrastava col suo aspetto aristocratico.
Forse il suo atteggiamento dipese dalla consuetudine alla discrezione, che comportava prudenza e tutela dell'intimità. La sua gratitudine l'avrebbe manifestata universalmente, cioè a tutti, quando nel suo umile, candido testamento avrebbe scritto: “Quanti doni, quante cose belle ed alte ho io ricevuto in questo mondo!”» (Ibidem, p. 88).
Ispirato dal viaggio di Paolo VI in Terra Santa, Luciano Chailly compose la Missa Papæ Pauli non servendosi, come in molti dei suoi lavori, della tecnica dodecafonica, quindi di un linguaggio complesso, armonico e melodico, ma «tornò ad un modo antico — confida Riccardo Chailly — che avvicinò molte più persone, spettatori sempre commossi».
Ne risultano 22 minuti di musica molto profonda, di preghiera, di religiosità che non si ferma alla dottrina ma è vero affetto. Una partitura in cui si succedono sei movimenti: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Benedictus e Agnus Dei. Davvero delicato ed estatico è l’ultimo movimento: il coro, accompagnato dall’orchestra, canta a Dio implorando misericordia e pace, prima di tacere insieme agli strumenti e concludere con un solo tocco di campana. Le parole finali della Messa, Dona nobis pacem, dovevano essere davvero sentite dal compositore se poi furono scolpite nel marmo della tomba di famiglia degli Chailly.