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LUOGHI DELLO SPIRITO

L'orizzonte marino ristoro per l'anima

Simbolo dell'estate rumorosa, il mare può invece rappresentare un'occasione per restituire all'uomo quell'interiorità consumata dalla città.

Attualità 13_08_2011
mare
La suggestione è vera, ma forse così ripetuta che pare ormai frusta. La montagna evoca la trascendenza, la quiete, la solitudine, l’ordine. Il mare l’immanenza, l’effimero, il brulichio di persone, gli strepiti e gli schiamazzi di ragazzini che giocano sulla spiaggia. Più consone alla meditazione le vette – così ci suggerisce il luogo comune – più adatte allo straniamento le superfici levigate dei lidi.

Lo stesso Gesù per trovare un luogo che potesse accogliere le sue confidenze
rivolte al Padre si ritirava tra i monti: “Congedate le folle, salì sulla montagna, da solo, a pregare”. Il mare e la sua riva erano invece – ci si conceda l’ossimoro – terra di missione. Lì ha trovato i suoi discepoli, lì ammaestrava chi era venuto ad ascoltarlo. Il mare è il mondo il cui sovrano è Satana. I suoi flutti tentano di far affondare la nave della Chiesa che si spinge al largo con Pietro per pescare uomini, per trarli da quelle acque letali e portarli in salvo nel suo santo scafo. Dal mare verrà l’anticristo ci dice l’Apocalisse. E dunque pare che le distese marine siano la quintessenza del male.

Oscuro riflesso ancestrale di tutto questo si riverbera anche nella letteratura
. “Musa quell’uomo del multiforme ingegno dimmi che sovresso il mare molti dentro del cor sofferse affanni”. Così l’abbrivio dell’Odissea che sin dall’inizio segna l’inimicizia tra il mare e Ulisse - l’Uomo che peregrina nel “negro flutto” per trovare, tra le “umide strade”, la via di casa, la pace dell’ultima dimora, felice intuizione precristiana del paradiso terrestre.

L’Ulisse di Omero viaggia in mare per quasi tre mila anni
e approda infine sulle coste dell’Irlanda dove James Joyce nel suo “Ulisse” inscena un epos nichilista dell’Odisseo contemporaneo fatto di banalità e bassezze, veri miti della nostra modernità, epos che dura l’affanno di un solo giorno. Qui il mare è svuotato da ogni incanto, è in sé morto, carcassa putrescente senza più attrattiva alcuna: “uova di pesce e marame, la marea avanzante, quella scarpa rugginosa. Verdemoccio, azzurrargento, ruggine. Una bottiglia di birra si rizzava, infitta fino alla cintola, nell’impasto grumoso della sabbia”. Anche se ad un certo punto nel flusso di coscienza narrativa albeggia, tra lo squallore, una nota diversa: “Le brezze gli caracollavano intorno, brezze mordenti e frizzanti. Eccole le onde. I cavalli marini bianco criniti, ribelli al morso, imbrigliati da lucide brezze”.

I flutti tornano ad essere epici con Herman Melville
, campi di battaglia solcati con coraggio nello sforzo di catturare Moby Dick. “Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”: è la nave Pequod del Capitano Achab, la quale sorvola gli abissi color cobalto alla ricerca inesausta di Moby Dick. Un mare che è ostile perché campo di regata dell’esistenza intesa come sfida per uccidere la balena bianca. Ed ognuno nella vita ha la sua balena bianca da catturare. Un obiettivo che assume le fattezze di una monomania per Achab: “Roso di dentro e arso di fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un'idea incurabile”.

Ancora duro e minaccioso è il mare per i pescatori di Aci Trezza
, impotenti, per volere del Verga, di fronte al destino che è forte e minaccioso come le acque del Mediterraneo. Verga esponente del verismo, così si doveva ripetere a scuola, dimentichi del fatto che l’unica cosa vera nei suoi romanzi è il pessimismo che non concede tregua alcuna. Quel pessimismo così tipico in certa letteratura non rischiarata dalla speranza cristiana.

Ma è questo l’unico volto del mare? Così fosco e plumbeo? E’ questo il mare che ci attende dopo le fatiche di tre stagioni lavorative?  No, madama Thalassa sa essere gentile e poetica, ed invita anch’essa alla meditazione. Una dozzina di anni fa dalle colonne del Corriere della Sera Claudio Magris scriveva che la montagna è sforzo, esige fatica. Non solo perché banalmente chi va tra le vette d’estate cammina, e cammina assai. Ma perché la verticalità dei monti richiama alla mente lo stare in piedi, il protendersi verso l’alto, il superarsi per elevarsi. Il mare invece è l’orizzontalità, l’infinito metafisico che si fa plasticamente visibile e che costringe il vacanziero – a patto che le riserve della sua sensibilità non siano completamente esaurite dopo massicce dosi di reality televisivi – a pensare all’infinito, all’eterno, a Dio.

Il mare e il suo paesaggio, a rifletterci bene, non possiedono quella concretezza
e non sono così materici come i paesaggi di montagna, perché questi sono impregnati dalla fatica del salire e dello scalare, i quali t’inchiodano alla fisicità dell’ambiente e all’hic et nunc. Il mare è invece habitat evanescente che ti proietta in una dimensione più introspettiva, sganciata dal momento presente. Un luogo dove ogni moto dovrebbe essere bandito perché inutile per la contemplazione della bellezza naturale, porta sicura verso quella sovrannaturale. Non così per la montagna dove occorre salire e sudare per gustare. E il caldo canicolare delle ore più spietate del meriggio in realtà aiuta in questo processo contemplativo, in questo smaterializzarsi del mondo a favore di un accesso alla sfera spirituale, così come ricorda Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo: “Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, sullo sfondo, era una macchia di puro colore. Il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che manteneva ogni cosa in una immobilità servile”.

Allora il mare può essere l’occasione per meditare sulle cose ultime
, sui novissimi della nostra vita, mentre si cammina sulla battigia o si è seduti sugli scogli che per Saba nella poesia “Ulisse” sono “scivolosi al sole e belli come smeraldi”, e lasciandoci intanto “cullare pel gran sole” per dirla alla D’Annunzio. Perché ascoltare la sua voce salina – dice Quasimodo in “S’ode ancora il mare” –  è ascoltare la nostra di voce: “Giù da più notti s’ode ancora il mare/ lieve, su e giù, lungi le sabbie lisce./ Eco d’una voce chiusa nella mente che risale dal tempo”. Il ritmato morire delle onde sulla riva rimanda al battito del nostro cuore come ci rammenta Montale in “Ossi di Seppia”: “Tu [mare] m’hai detto primo/ che il piccino fermento/ del mio cuore non era che un momento/ del tuo”.  “Ammonimento del tuo respiro”, lo chiama il poeta questo fragore marino, una “voce di una grandezza libera” la definisce invece Ungaretti. Un richiamo dunque alle nostre coscienze ispessite dal contingente, dal banale quotidiano, verso mete più alte, verso più nobili propositi per il nuovo anno lavorativo. Gustav von Aschenbach in “Morte a Venezia” prima di spegnersi in riva al mare coglie proprio questa verità pedagogica del mare e compie un ultimo struggente gesto: lo indica. “Indicò lontano nell’immensità ricca di promesse”, verga Thomas Mann nelle righe conclusive del suo romanzo. Nell’orizzonte marino si cela l’orizzonte dell’uomo.

Questo è il mare stupefacente e maestoso celebrato dall’ipersensibile Proust
che nella sua immensa “Recherche” ci apre alla meraviglia del particolare: “scorgevo a grande distanza le colline del mare e le loro prime ondulazioni, in una lontananza trasparente, vaporosa e bluastra. Altre volte, vicinissimo a me il sole rideva su quei flutti d’un verde non meno tenero di quello che conserva alle praterie alpestri più che l’umidità del suolo la liquida mobilità della luce. Del resto, in quella breccia che la spiaggia ed i flutti aprono in mezzo al mondo per farvi passare, per accumularvi la luce, è la luce che soprattutto sposta e situa gli avvallamenti marini. Il sole raggiante bruciava in quel momento il mare come un topazio, lo faceva fermentare, diventare biondo e lattiginoso come birra, schiumoso come latte, mentre a tratti vi trascorrevano qua e là grandi ombre azzurre, che qualche dio sembrava divertirsi a spostare, movendo uno specchio nel cielo”.

Allora il mare con i suoi spazi e colori, con i suoi cieli e atmosfere
, è luogo davvero spirituale il quale è capace, se non ci facciamo distrarre dal circo da spiaggia agostano, di elevarci, di restituirci quell’interiorità e profondità consumate in città e così fortemente compromesse in noi nei rigidi e opachi giorni d’inverno. Pronti infine, come Ulisse, a volger la prua verso casa.