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MESTIERI & LETTERATURA / 8

L’operaio tra orgoglio, frustrazione e impeto di rivolta

Il mestiere dell’operaio è figlio della Rivoluzione industriale e trova spazio nell’immaginario letterario solo a partire dalla metà dell’Ottocento, quando in terra francese il paradigma positivista porta alla nascita del movimento letterario del Naturalismo.

Cultura 07_11_2022

Il mestiere dell’operaio è figlio della Rivoluzione industriale e trova spazio nell’immaginario letterario solo a partire dalla metà dell’Ottocento, quando in terra francese il paradigma positivista porta alla nascita del movimento letterario del Naturalismo.

Quasi sempre i romanzieri descrivono un operaio alienato, abbruttito dalle tante ore di lavoro, capace di trascorrere le poche ore libere solo tra il vino e le donne.

Nel 1865 i fratelli Edmond e Jules de Goncourt scrivono Germinie Lacerteux, mentre nel 1867 Émile Zola pubblica Therese Raquin. Nella «Prefazione» a Germinie Lacerteux gli autori scrivono che il romanzo deve occuparsi in modo appassionato e vivo della ricerca sociale, imponendosi lo studio e «i doveri delle scienze» e mostrando «miserie capaci di non essere più dimenticate dai fortunati di Parigi», come quelle dei minatori e della classe operaia.

Nella «Prefazione» a Therese Raquin anche Émile Zola sottolinea che il suo scopo è scientifico, perché «lo scrittore si comporta come un analista che si può immergere nel marciume umano […]. come succede ad un medico davanti ad un tavolo anatomico […]. Voglio spiegare come una famiglia, un piccolo gruppo di esseri, si comporti in una società». Ne Il romanzo sperimentale (1880) Zola auspica il definitivo affrancamento dell’uomo dall’ambito del mistero e del senso religioso. Progresso coincide per lui con la delimitazione dell’ignoto in nome del conoscibile, scientifico significa dimostrabile scientificamente, ovvero secondo il paradigma positivista riproducibile dalle mani dell’uomo, come se tutto ciò che esiste possa essere riprodotto, come se smontare e comprendere i meccanismi voglia dire, a sua volta, poter creare.

In un’epoca in cui il matrimonio tra tecnologia e scienza ha visto il trionfo della prima e le macchine diventano indiscusse protagoniste delle città industriali, anche il corpo dell’uomo è percepito come «una macchina di cui un giorno si potranno smontare e rimontare gli ingranaggi a piacimento dello sperimentatore». «L’uomo metafisico è morto» scrive Zola. L’uomo viene così degradato al livello di tutti gli altri esseri viventi, per cui il suo pensiero, il suo credo, i suoi sentimenti sono ridotti a meccanismi chimico-fisiologici.

In Germinal Zola descrive l’abbruttimento di operai che passano da una bettola all’altra, si ubriacano, vivono la sessualità solo in una dimensione bestiale. I loro stessi figli, che bevono fin da piccoli, sono destinati ad una vita simile a quella dei genitori. Bische per il gioco e bettole diventano i soli luoghi di socializzazione per la classe operaria, che può rifuggire dalle fatiche della giornata e cercare l’offuscamento delle sofferenze in una condotta di vita che non può che portare all’alcolismo.

La figura dell’operaio è così descritta, fin dalla sua comparsa nella narrativa, con un fine sociale. Zola arriva pure a rappresentare le prime manifestazioni e rivolte, preludio di possibili future rivoluzioni.

In Italia il primo a dedicare un romanzo ad operai che vogliono promuovere la rivoluzione è Nanni Ballestrini (1935-2019) che scrive nel 1971 un romanzo dal titolo molto emblematico: Vogliamo tutto. Un operaio meridionale immigra a Torino e inizia a lavorare nella FIAT. Ivi scopre l’iniquità del sistema di fabbrica, la fatica del lavoro duro e sottopagato, l’iniquità degli stessi sindacati e del partito comunista, che preferisce operai accondiscendenti e accomodanti piuttosto che lavoratori coscienti e combattenti. Così, in maniera quasi involontaria, anche lui scopre dentro di sé l’audacia di chi non è cresciuto nella fabbrica e può dire ai suoi compagni: «Ma siete degli stronzi voi siete degli schiavi. Qua bisogna  picchiarli a sti guardioni qua a sti fascisti. […] E qua dentro ci vogliono comandare. […] Sono più liberi quelli che stanno in galera di noi. Qua incatenati a queste macchine schifose». L’operaio lavora così sempre più controvoglia, perché vuole solo lottare.

Arringa gli operai sostenendo che tutto deve cambiare, perché altrimenti saranno sempre loro, gli operai, a stare peggio. La vita diventa una lotta contro qualcuno, non un sacrificio e una fatica per amore di qualcuno tanto che grida a gran voce: «In quel tranello non ci caschiamo più perché proprio non siamo lo stesso corpo noi e loro. Non abbiamo niente in comune siamo due mondi diversi siamo nemici e basta noi e loro […]. Col lavoro dei padroni e con lo Stato dei padroni noi non abbiamo nessun interesse comune».

Così, verso la fine del romanzo, il protagonista invita i compagni a passare dalla lotta per il salario alla lotta per il potere, li sprona allo sciopero e alla conquista del potere e della ricchezza: «Dobbiamo lottare contro uno Stato fondato sul lavoro. Diciamo: Sì alla violenza operaia».

La violenza così investe lo stesso sistema, gli stessi interpreti dell’ideologia, così come nella Rivoluzione francese il terrore fagocitò in poco tempo i suoi stessi promotori. È una violenza iconoclasta, gratuita, che annulla ogni possibilità di comunicazione e afferma il rumore, il caos, il ritorno alla legge delle belve. Così Ballestrini racconta i fatti: «Picchiavamo a calci contro i cassoni del materiale per fare rumore un rumore cupo violento dududu dududu dududu e per due ore a fare questo casino. Poi ogni tanto facevamo delle assemblee […] gridando tutti insieme: più soldi meno lavoro. Oppure: Vogliamo tutto».

Il protagonista non diventa più umano né tantomeno ambisce alla realizzazione della giustizia in Terra. Oppositore e  accusatore del sistema, vuole soltanto sostituirsi ai capi, vuole diventare detentore del potere. Non si accorge, però, che ha già perso la lotta. È già divenuto schiavo del meccanismo come gli altri, anche se si vanta di essere fautore di una stagione nuova.

Esiste anche una descrizione positiva del lavoro operaio? Si trovano romanzi i cui protagonisti sono orgogliosi del mestiere di operaio? Certamente, ma sono del tutto minoritari.

Qualche anno prima di Vogliamo tutto, nella Giornata di uno scrutatore (1963), Calvino mette in scena un operaio che è, invece, lieto e grato; è un uomo deformato del Cottolengo, orgoglioso delle proprie capacità e consapevole del proprio debito di gratitudine nei confronti di chi gli ha insegnato il mestiere: «Io so fare tutti i lavori da me […], sono le suore che mi hanno insegnato. Qui al Cottolengo facciamo tutti i lavori da noi. Le officine e tutto. Siamo come una città […] non ci manca niente. Le suore non ci fanno mancare niente. […] Grazie alle suore sono riuscito a imparare. Io senza le suore che mi aiutano sarei niente. Ora io posso fare tutto. Non si può dire niente contro le suore. Come le suore non c’è nessuno».

L’uomo può dire io solo in un rapporto, solo nella consapevolezza del proprio debito di gratitudine per chi ci è padre, per chi ci ha messo sulla strada, ci ha fatto camminare, ci ha permesso di esprimere più appieno la nostra umanità. Assistendo a questo dialogo Amerigo entra in crisi, si interroga se il valore dell’uomo consista nella produttività e nella perfezione o se l’uomo, in realtà, valga quando non consideri mai abbastanza raggiunta la sua interezza. È una bellissima intuizione: l’uomo vale nella consapevolezza della sua dipendenza e nella tensione del suo sguardo verso l’ideale.

Il Cottolengo diventa la prova e insieme la smentita dell’inutilità del fare, della vanità del tutto e insieme dell’importanza di ogni azione compiuta, una potente testimonianza contro l’ambizione delle forze umane. Anche un semplice bullone acquista così un significato profondissimo se esso è messo in rapporto con la complessità totale nella quale si inserisce, come se fosse un pezzo di un puzzle inserito al posto giusto. Nasce così la consapevolezza dell’azione che compiamo sul lavoro in relazione al senso complessivo del lavoro e della realtà. Ogni opera che si compie ha solo il significato «di variante dell’unica attitudine possibile: la preghiera, ossia il farsi parte di Dio, ossia […] l’accettare la pochezza umana il riversare la propria negatività nel conto di una totalità in cui tutte le penalità si annullano»

Ne La chiave a stella (1978) di Primo Levi, il protagonista Fassone, stanco di lavorare in fabbrica, presta la sua manovalanza come montatore presso i cantieri sparsi nel mondo, contento e orgoglioso del lavoro che svolge. Racconta, infatti:

"Perché sa, se io faccio questo mestiere di girare per tutti i cantieri, le fabbriche e i porti del mondo, non è mica per caso, è perché ho voluto. Tutti i ragazzi si sognano di andare nella giungla o nei deserti o in Malesia, e me lo sono sognato anch’io; solo che a me i sogni mi piace farli venire veri, se no rimangono come una malattia che uno se la porta appresso per tutta la vita, o come la farlecca di un’operazione, che tutte le volte che viene umido torna a fare male. C’erano due manieri: aspettare di diventare ricco e poi fare il turista, oppure fare il montatore. Io ho fatto il montatore".