Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
1928-2014

L'opera incompiuta di Ariel Sharon

Ieri è morto il generale e politico israeliano Ariel Sharon. Un personaggio maledetto dalla memoria collettiva. Ma sfugge la visione di lungo periodo di questo stratega, che mirava alla pace pur sapendo di dover lottare ancora per molto.

Esteri 12_01_2014
Ariel Sharon

Di solito, quando si parla di un personaggio storico appena morto, il rischio è quello di cadere nell’apologia. Nel caso di Ariel “Arik” Sharon, generale, politico e primo ministro israeliano, morto ieri all’età di 85 anni dopo 8 anni di coma, il rischio è quello opposto. In Italia, almeno (per non parlare del mondo arabo) il suo nome è legato solo a quello di crimini: il massacro di Qibya (1953), la strage dei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut (1982), o la “passeggiata” sulla spianata delle Moschee (2000). Solo gli appassionati di storia militare lo ricordano per la sua grande abilità di stratega. Il suo capolavoro indiscusso resta l’accerchiamento della III Armata egiziana durante la guerra dello Yom Kippur (1973), condotto con forze inferiori e nel pieno dell’avanzata del nemico. Se non si fosse arrivati alla tregua, Sharon avrebbe potuto proseguire da solo fino al Cairo.

Tuttavia sarebbe un errore perdersi nei dettagli della lunga carriera di militare e politico di Ariel Sharon e soffermarsi sui suoi presunti crimini di massa. Anche perché si scoprirebbe che la strage di Qibya è un episodio ancora oscuro (Sharon fece radere al suolo molte case, ma sapeva realmente che erano ancora abitate?) e che quello di Sabra e Shatila non è un massacro commesso dal generale israeliano, ma dai falangisti libanesi cristiani: Sharon fu semmai colpevole di non averli fermati e non è ancora chiaro se volutamente o per errore. Anche il singolo episodio della “passeggiata” va ridimensionato alla luce degli eventi precedenti e successivi. Yassir Arafat, infatti, aveva già rotto le trattative di pace a Camp David e stava preparando la seconda sollevazione anti-israeliana (Seconda Intifadah) da mesi.

Un giudizio più sereno potrebbe essere formulato solo conoscendo il disegno politico di Sharon, la sua strategia di lungo periodo. Che cosa voleva fare? Quale era la sua idea di Medio Oriente? Fin dalla sua discesa nell’arena politica, nel 1974, Sharon aderì alle idee e ai programmi del partito Likud. L’obiettivo finale del Likud, nei primi tempi, era quello di una Grande Israele, che non includesse solo i territori dal Giordano al Mediterraneo, ma anche tutta l’attuale Giordania. Dunque: tutto il territorio incluso nella Palestina mandataria britannica, promessa agli ebrei (e mai concessa) nel 1917. Evolvendosi, il Likud si accontentò di una politica di annessione piena di tutto il territorio dal Giordano al Mediterraneo. Sharon stesso ha sempre considerato la Giordania come la vera patria dei palestinesi. Giudicava il regno hashemita come una imposizione coloniale britannica, retaggio della Prima Guerra Mondiale e auspicava la nascita, a Est del fiume Giordano, di una repubblica palestinese con cui trattare la pace. La politica likudista della colonizzazione intensiva dei territori in Cisgiordania (a Ovest del Giordano), di cui il generale fu protagonista, è coerente con questo progetto. La Cisgiordania, dunque non era solo un territorio provvisoriamente occupato e rinunciabile in cambio di un accordo di pace, bensì parte integrante di Israele, l’insieme delle regioni di Giudea e Samaria che facevano parte del regno ebraico sin dai tempi della Bibbia.

Sharon, tuttavia, maturò un’idea differente, molto più pragmatica rispetto al programma del suo partito. In primo luogo non considerò mai le colonie ebraiche come un insediamento permanente, ma come un mero strumento di pressione. Volle la loro espansione quando un accordo era lontano, ma quando l’accordo fu ottenuto con l’Egitto non esitò a gestire lo sgombero di tutto il Sinai nei primi anni ’80 (quando era ministro della Difesa), così come ordinò lo sgombero di Gaza nel 2005. Questo suo pragmatismo fu sin troppo disinvolto e probabilmente costituisce il suo principale errore politico. I coloni non sono oggetti che possono essere spostati. Non sono neppure truppe a cui si può ordinare una manovra. I coloni sono popolazioni intere che Sharon stesso spinse in aree ritenute parte di Israele, anche se non direttamente annessa. Sono, in molti casi, israeliani nati e cresciuti in territori che vengono poi, forzatamente e repentinamente, sgomberati per decisione del governo. Le scene drammatiche di evacuazione forzata, del Sinai prima e di Gaza poi, sono quelle di una vera e propria pulizia etnica commessa ai danni del proprio popolo. Gli evacuati da Gaza sono tuttora un problema sociale per Israele: mai realmente integrati, sicuramente mai entusiasti della sorte che hanno subito. E stiamo parlando di migliaia di persone. E quando si tratterà di evacuare mezzo milione di ebrei dalla Cisgiordania?

Nonostante queste oggettive difficoltà, il “disimpegno” dalle colonie fu al centro dell’azione politica dell’ex generale. Constatando che la crescita demografica palestinese era molto superiore rispetto a quella israeliana e che la comunità internazionale (compresi gli Usa, unici veri alleati) non tollerava più un’occupazione di Cisgiordania e Gaza da parte di Israele, Sharon accettò la divisione del territorio. La sua strategia procedette su due binari paralleli. Da un lato il negoziato, per arrivare alla definizione di un confine concordato fra Israele e Palestina. Dall’altro il “disimpegno”: il ritiro graduale di coloni e soldati al di qua di una linea difensiva sicura. In caso di fallimento del negoziato, la linea difensiva stessa (che Sharon protesse con la celebre barriera difensiva, dai palestinesi detta “muro della vergogna”) avrebbe costituito il confine.

Ariel Sharon è stato, per questo, accusato di “unilateralismo”: pensare solo alla sicurezza di Israele e lasciare agli arabi la soluzione del problema palestinese. Sharon non negò mai questa idea di fondo. Discepolo lontano della scuola politica di Zeev Jabotinskij, uno dei fondatori dello Stato ebraico (e del suo esercito), era convinto della strategia del “muro di acciaio”: compito dello statista israeliano è difendere Israele, sta agli arabi accettare l’esistenza di uno Stato ebraico. Gli israeliani devono dunque difendersi senza compromessi, finché non compariranno, ai loro confini, leadership arabe sufficientemente moderate da accettare la pace e la coesistenza. Il negoziato sarà dunque possibile solo quando gli arabi accetteranno di cessare le ostilità È un punto di vista duro da accettare, opposta alla visione del problema condivisa dai laburisti, secondo i quali è l’assenza di negoziato che causa la guerra. Il leader della sinistra israeliana più rappresentativo di questa seconda scuola di pensiero laburista fu Yitzhak Rabin, assassinato da un estremista di destra israeliano nel 1995.

Aveva ragione Rabin con il suo “processo di pace”, o Sharon con il suo “muro d’acciaio”? La storia è stata impietosa con entrambi, perché tutti e due furono stroncati (il primo dalle pallottole, il secondo dall’ictus) proprio mentre erano a un passo dalla realizzazione dei loro grandi disegni strategici. Dopo la scomparsa di Sharon dalla scena politica, in compenso, sembra che Israele non abbia più prodotto alcun leader dotato di visione strategica di lungo periodo.