L'Onu arriva tardi. Però maschera bene l'imbarazzo
Dice Gaiani che la Nato cerca adesso
di sfruttare la situazione per sé, l'Italia
si dibatte fra alleanza contrapposte
e Bush ci aveva visto giusto. - Manca l'Occidente cristiano, di mons. L. Negri
Tardiva e un bel po’ raffazzonata. L’analista Gianandrea Gaiani definisce così la decisione adottata la notte scorsa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu di istituire una “no fly zone” sopra i cieli della Libia in fiamme. Per Gaiani - esperto di strategia e studioso dei teatri di guerra, direttore del mensile web Analisi Difesa, collaboratore di diverse testate giornalistiche - la “soluzione” potrebbe infatti giungere a giochi finiti. Perché se la Francia annuncia raid aerei nelle prossime ore, gli Stati Uniti ribattono affermando che per allestire l’interdizione dello spazio aereo libico alle forze di Tripoli occorre non meno di una settimana. «Ma se la “no fly zone” fosse estata istituita subito», spiega Gaiani, «diciamo anche solo una decina di giorni fa, le cose sarebbe state assai diverse».
E cioè?
Più credibili…
Adesso non lo sono?
Molto meno. Anzitutto la “no fly zone” rischia di essere inefficace sul piano pratico e in più la sua istituzione solo ora rivela di essere palesemente una scusa.
Per cosa?
Per coprire l’enorme imbarazzo che l’Occidente sta provando di fronte a Muhammar Gheddafi: l’Occidente non si può permettere il lusso di far finta di nulla con il raìs dopo averlo nelle scorse settimane trattato come il peggiore dei criminali della storia. Se Gheddafi dovesse sfangarla e rimanere al potere, cosa farebbe l’Occidente? Ecco dunque la necessità di un intervento che lo metta alle corde.
Lo metterà davvero alle corde?
L’istituzione di una “no fly zone” è già formalmente un atto di pre-guerra…
Quindi Gheddafi è finito…
Chi lo sa... Ma detto appunto che la “no fly zone” è già pre-guerra, di per sé l’interdizione dello spazio aereo libico all’aviazione libica non è in grado di fermare l’offensiva militare di Gheddafi. In Bosnia la “no fly zone” non impedì ai serbi di compiere atti genocidi, consumati con mezzi di terra. In Iraq è successo lo stesso. L’unica strategia che potrebbe militarmente ottenere risultati sarebbe l’intervento con truppe di terra, ma questo è l’unico punto esplicitamente vietato dalla risoluzione adottata ieri notte… E comunque sia, ora che la macchina occidentale partisse, potrebbe non servire ad alcunché. Gheddafi potrebbe arrivare a Bengasi, roccaforte delle forze ribelli, in tempi rapidissimi e poi - come peraltro sembra già avere annunciato - fermare l’esercito, lasciando che della normalizzazione si occupino le forze di polizia. Una strategia intelligente e vincente già a suo tempo adottata dalle truppe britanniche a Bassora, in Iraq, che sfollarono e rifocillarono i civili, snidando poi i nemici armati uno per uno, casa per casa. Questo ridusse al minimo le vittime in Iraq e potrebbe tenerne ugualmente basso il numero a Bengasi, a tutto vantaggio - anche d’immagine - di Gheddafi…
Ma, Bengasi a parte, Gheddafi sta massacrando da settimane il popolo libico…
Guardi, le fonti mediche locali, cioè non il governo di Tripoli, ma il personale impegnato in prima linea nelle strutture ospedaliere, parla di un totale, dall’inizio degli scontri, di circa 500 morti. Che non sono pochi, ma che non configurano un “genocidio”, cifre che non ci rendono Gheddafi più simpatico, ma che pure non giustificano lo stracciarsi le vesti da parte di quei Paesi occidentali che ora - tardi - strepitano e propendono - più alcuni di altri - per l’intervento armato immediato…
Intende dire la Francia?
La Francia, certo: il Paese che più sta spingendo per l’intervento militare. Poi però anche la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, ovviamente per ragioni petrolifere. Queste potenze, magari Francia in testa, sperano di poter ottenere vantaggi dal cambio di regime, magari sfilando proprio all’Italia alcuni contratti. Soprattutto ora che non possono più sostenere il regime di tripoli ritenuto peraltro un alleato fino a ieri. Se infatti l’Occidente - precisiamo: la Nato - intervenisse militarmente ora, passerebbe per il vero trionfatore. Da lì a ottenere vie privilegiate di accesso alle fonti energetiche sarebbe un attimo. Del resto, la del tutto improvvisa efficienza militare dei ribelli che si sta registrando - se le notizie fossero confermate - in Libia ora potrebbe far pensare a qualche fattivo aiuto occidentale già in atto seppur nascostamente. La “no fly zone” e quel che ne seguirà diverrebbero a maggior ragione solo una copertura di operazioni già esistenti.
In tutto questo a che punto è l’Italia?
L’Italia è legata alla Libia da un trattato di amicizia. Non a un governo libico qualunque, ma allo Stato libico in quanto tale (peraltro il governo che ha nella fattispecie sottoscritto con Roma quel trattato più che governativo è ancora comunque in carica a Tripoli). Di per sé quel trattato l’Italia lo starebbe già violando; d’altro canto, l’Italia fa pure parte della Nato in maniera non meno vincolante… Credo comunque, realisticamente, che nell’eventualità di una operazione militare della Nato l’Italia fornirà supporto aereo di vigilanza alla “no fly zone”, utilizzando le basi di Trapani e Sigonella, più le strutture utili anche a scopi militari di Lampedusa e Pantelleria. Anche per operazioni di ricupero in casi di necessità.
Un ultima domanda. Come vede l’intero scenario delle “rivolte del pane” mediorientali e nordafricane?
Giocoforza ci si è concentrati sul caso libico, e a buon diritto. Ma ciò conferma che è impossibile generalizzare la situazione per tutti Paesi di area interessati da tumulti, sommosse, rivolte. Ciò che accomuna le varie “piazze” arabe è l’insoddisfazione rispetto a regimi non democratici, al rincaro assurdo di generi di prima necessità, alla spartizione asimmetrica (Libia docet) dei proventi derivanti della prima fonte di ricchezza di quel mondo, il petrolio.
Detto questo, però, ognuno di quei Paesi ha contesti, storie, meccanismi, culture e situazioni diverse. Impossibile appiattire tutto nell’indistinto. Ci sono rivolte per il pane, ribellioni a gerontocrazie, dissidi enormi fra sciiti e sunniti, spinte secessioniste, e così via. Spesso le cose si sovrappongono e si assommano, ma questo complica ulteriormente il quadro. Il punto focale ora è la penisola arabica. Lì l’Arabia Saudita ha deciso di far da sé perché non si fida più dell’Occidente che ha scaricato tanto repentinamente un alleato fondamentale qual era Hosni Mubarak in Egitto. Ora è Riad che pensa d’imporsi come gendarme regionale dell’ordine e lo dimostra fattualmente. E resta vera una cosa: dopo l’Unici Settembre l’unica strategia occidentale sul campo è stata quella studiata, elaborata e portata avanti del presidente americano George W. Bush jr. e dai neoconservatori. E cioè la necessità di entrare militarmente in un mondo chiuso e privo da sempre di democrazia qual è quello islamico, forzandone le porte. Una strategia che ha i suoi rovesci di medaglia, i suoi limiti e anche i suoi tentennamenti, ma anzitutto l’unica messa in campo e in secondo luogo quella che, comunque, qualche risultato lo sta portando in Iraq, persino in Afghanistan nonché - localmente – in altre zone di quel mondo.