L'Oms e la "mpox", una gestione grottesca fra antirazzismo e allarmismo
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L'Oms ha proclamato subito, e in modo inopportuno, l'emergenza sanitaria di interesse internazionale, per lo scoppio dell'epidemia di vaiolo delle scimmie in Africa. Che per motivi di antirazzismo oggi si chiama mpox.
La dichiarazione di “emergenza sanitaria di interesse internazionale” decisa il 14 agosto dal Comitato di esperti internazionali dell’Oms è l’ottava da quando nel 2005 sono state istituite le Regole sanitarie internazionali dell’Oms, la seconda riguardante una epidemia di mpox, il vaiolo delle scimmie.
Una dichiarazione di emergenza sanitaria di interesse internazionale ha la funzione di attivare determinati protocolli che comportano un coordinamento internazionale e richiedono pertanto il consenso e la collaborazione di più governi. L’iniziativa più comune è l’adozione di procedure speciali di controllo alle frontiere. Ad esempio, durante l’ultima epidemia di Ebola scoppiata nel Kivu, una provincia dell’est della Repubblica democratica del Congo, i funzionari di frontiera congolesi e dei paesi confinanti controllavano lo stato di salute delle persone in transito, imponevano alcune elementari misure sanitarie, registravano quanto tempo e dove intendevano soggiornare all’estero e il luogo di provenienza di chi rientrava in patria.
Ma la mpox non è l’Ebola. È vero che in Africa le condizioni igienico sanitarie, abitative e fisiche di molte persone e soprattutto le carenze dei servizi sanitari nazionali aumentano la pericolosità di tante malattie il cui tasso di letalità si riduce drasticamente, fino a diventare prossimo a zero, se curate in modo adeguato. Ma anche in condizioni avverse, la mpox ha un tasso di letalità al massimo del 10% mentre quello dell’Ebola è in media del 50% e in alcuni casi ha raggiunto il 90%. Inoltre il contagio avviene solo per contatto con animali e persone infette, con un sensibile incremento, per quanto riguarda l’attuale epidemia causata da una variante nota come Clade Ib, della trasmissione tramite rapporti sessuali. Il contagio fortunatamente è meno facile rispetto alle malattie che si trasmettono per via aerea come ad esempio il Covid-19.
Quindi la rapidità con cui il Comitato di esperti internazionali dell’Oms ha dichiarato emergenza sanitaria di interesse internazionale la nuova epidemia di mpox scoppiata in Africa è inaspettata e per molti anche sospetta, inaccettabile. In effetti è difficile credere che una malattia assai poco letale, curabile, che si manifesta con una fastidiosa eruzione cutanea e sintomi simili a quelli di una influenza rappresenti una nuova minaccia incombente, globale. Molta gente mostra insofferenza, diffidenza per i mass media e per gli “esperti” in cerca di visibilità che amplificano, ingigantiscono l’entità del problema. Ma le reazioni negative derivano soprattutto dalla ormai diffusa diffidenza nei confronti dell’Oms. Danno la misura di quanto sia screditata questa agenzia delle Nazioni Unite: del tutto meritatamente e persino non ancora abbastanza perché il discredito deriva più che altro dal modo deplorevole in cui ha gestito la pandemia di Covid-19 mentre a suo carico ci sono ben altre responsabilità.
Nel 2009, ad esempio, l’Oms aveva annunciato che entro il 2015 nessuno sarebbe più morto di malaria grazie ai miliardi di zanzariere impregnate di insetticidi donate in Africa, ostinatamente sicura che insetticidi e bonifiche fossero mezzi secondari. I fatti l’hanno clamorosamente smentita, purtroppo. In occasione della Giornata mondiale contro la malaria 2024 ha pubblicato i dati relativi al 2022: 249 milioni di casi e 608mila morti. Ma forse l’errore decisivo, all’origine della sfiducia crescente, irrimediabile, risale a 10 anni fa. Nel 2014 una epidemia di Ebola ha colpito tre stati africani: Liberia, Sierra Leone e Guinea Conakry. Fin dai primi mesi il numero dei casi e la loro diffusione geografica avevano indotto Medici senza frontiere a chiedere che fosse dichiarata tempestivamente una emergenza sanitaria di interesse internazionale. Erano convinti che si fosse in presenza di una epidemia di proporzioni mai viste, la peggiore mai verificatasi dalla scoperta della malattia nel 1976. Sollecitata più volte, l’Oms ha sempre replicato che l’allarme era immotivato e solo dopo nove mesi dai primi casi accertati ha riconosciuto la gravità della situazione: «c’è stata probabilmente una mancanza di conoscenze e un certo grado di arroganza – ha ammesso allora – ma stiamo imparando la lezione». Troppo tardi: l’epidemia dal 2014 al 2016 ha ucciso 11.325 persone.
Proprio la storia sorprendente della mpox offre un altro motivo per dubitare della credibilità dell’Oms, del suo funzionamento, delle sue priorità, e non solo dell’Oms. Quando era endemica solo in Africa occidentale e centrale, la mpox era nota come vaiolo delle scimmie. Poi nei primi mesi del 2022 per la prima volta è comparsa in altri Stati africani e in altri continenti. È stato allora che un gruppo di scienziati si è preoccupato per le conseguenze negative delle “sfumature razziste” del nome della malattia. A giugno quegli scienziati hanno chiesto all’Oms di cambiarne il nome e prontamente Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore dell’Oms, ha risposto che avrebbe provveduto, avvisando però che non sarebbe stata una cosa semplice. Cambiare nome a un virus infatti comporta dei problemi, primo fra tutti e non da poco la discontinuità che si crea nella letteratura scientifica.
Per questo dapprima, e con rammarico, il nome è rimasto, ma se non altro è stato possibile cambiare subito il nome delle sue due varianti. La “variante del bacino del Congo” è diventata Clade I e la “variante dell’Africa occidentale” Clade II. Le nuove denominazioni sono diventate ufficiali il 12 agosto 2022. «Siamo molto felici che ora possiamo chiamarle Clade I e Clade II piuttosto che fare riferimento a queste varianti usando le regioni africane – aveva commentato Ahmed Ogwell, direttore ad interim degli Africa Centers for Disease Control and Prevention – siamo davvero soddisfatti di questo cambiamento nella denominazione che rimuoverà lo stigma dalle varianti». Adesso la priorità è sostituire quel brutto nome “vaiolo delle scimmie”, aveva dichiarato poi Fadela Chaib, portavoce e responsabile delle comunicazioni dell’Oms, garantendo che l’agenzia Onu si assumeva la responsabilità di rinominare anche altre malattie qualora i termini usati risultassero stigmatizzanti – fino a quel momento ne erano state individuate 10, oltre al vaiolo delle scimmie, tra le quali la febbre del Nilo, la febbre della Rift Valley, Zika, la febbre di Lassa – e soprattutto che mai più i nuovi virus e le nuove malattie sarebbero stati chiamati con nomi inappropriati, politicamente scorretti, razzisti, tali da recare offesa a un “gruppo culturale, sociale, nazionale, regionale, professionale o etnico”.
Nel frattempo, impaziente e preoccupata, a luglio la città di New York aveva scritto una lettera al direttore Ghebreyesus per ricordargli gli effetti “potenzialmente devastanti e stigmatizzanti” del termine vaiolo delle scimmie. Nella lettera si leggeva: «continuare a usare il termine ‘vaiolo delle scimmie’ per descrivere l’attuale epidemia può riaccendere sentimenti razzisti, specialmente contro i neri e altre persone di colore». Finalmente a novembre, dopo una serie di consultazioni con esperti internazionali, l’Oms decise di iniziare a usare il termine “mpox” invece che “vaiolo delle scimmie”, nome ammesso ancora per un anno, ma con l’impegno a eliminarlo gradualmente.