L'offensiva dell'Isis nel Sinai
Lo Stato Islamico si palesa in un altro pezzo di mondo arabo: la penisola del Sinai. Pressoché fuori controllo dal 2011, questa regione strategica dell'Egitto, al confine con Israele, è stata oggetto di una vasta offensiva di jihadisti, forti di 300 miliziani ben armati e addestrati. Hanno attaccato nell'anniversario della deposizione di Morsi.
Distratti da tanti fronti rischiamo di derubricare a «brutta notizia tra tante» gli attacchi che mercoledì i militanti dello Stato Islamico hanno lanciato contro le truppe egiziane nella penisola del Sinai. E invece faremmo bene a prestare molta attenzione a quanto sta accadendo da quelle parti, non fosse altro per le proporzioni delle forze messe in campo dagli islamisti.
Da giorni giustamente riflettiamo sull'orrore scatenato sulla spiaggia di Sousse da un killer jihadista, con ogni probabilità ben sostenuto da alcuni complici. Bene: giovedì nel Sinai ad attaccare sono stati 300 miliziani, che hanno colpito in contemporanea qualcosa come 15 diversi obiettivi. E lo hanno fatto non con un kalashnikov, ma con armi sofisticate come i missili anticarro. Il tutto non in un momento qualsiasi, ma nei giorni che al Cairo segnano il secondo anniversario della destituzione di Mohammed Morsi, il presidente espressione dei Fratelli Musulmani, tuttora in carcere con una condanna a morte che pende sul suo capo.
Per un giorno intero si è andati avanti a combattere intorno a Sheikh Zuwied, una cittadina di 55 mila abitanti che si trova ad appena sedici chilometri da Rafah, la località che segna il confine tra l'Egitto e la Striscia di Gaza. Con l'esercito di al Sisi che stavolta ha dovuto utilizzare i bombardamenti con gli F16 per evitare di veder sventolare la bandiera nera dell'Isis su Sheikh Zuwied.
Un'operazione così in grande stile non nasce evidentemente dall'oggi al domani e infatti è noto da tempo che l'esercito egiziano ormai controlla solo sulla carta il Sinai. Nel vuoto di potere venutosi a creare dopo la caduta di Mubarak il Sinai è diventato una sorta di Eldorado dei traffici di armi e di migranti, con l'emergere di una nuova formazione jihadista denominata Ansar Beit al-Maqdis, i «sostenitori della Santa Casa» (che nello specifico è la moschea di al Aqsa a Gerusalemme). Più che di Israele - però - fino ad ora questa formazione jihadista si è presa cura dell'Egitto del nuovo uomo forte, il generale-presidente al Sisi. Lanciando attraverso la lotta armata una specie di Opa sull'eredità dei Fratelli musulmani, la potentissima e capillare organizzazione islamista egiziana, messa in crisi - più ancora che dall'incarcerazione dei suoi leader - dallo scarso sostegno dei sauditi e delle monarchie del Golfo, più interessate oggi al confronto con gli sciiti in Siria, in Iran e nello Yemen che alle convulsioni dell'Egitto del dopo piazza Tahrir.
Che Ansar Beit al-Maqdis – nel nuovo scacchiere qaedista – si fosse collocata dalla parte dello Stato Islamico non era un mistero: già un anno fa, subito dopo la proclamazione del Califfato a Mosul, era stata tra le prime formazioni a giurare fedeltà. Ma - molto pragmaticamente - durante l'estate scorsa, nonostante il suo nome bellicoso, se n'era rimasta tranquilla durante la nuova fiammata di guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. Segno che la battaglia contro Israele era ritenuta molto meno strategica di quella interna egiziana.
In queste ore stiamo capendo il perché: l'offensiva di mercoledì segue l'attentato in cui, nel cuore del Cairo, lunedì è stato ucciso da un'autobomba il procuratore Hisham Barakat, l'uomo chiave dei processi contro i vertici dei Fratelli musulmani. Lo Stato Islamico ha deciso di uscire dalla sua posizione dormiente e di giocare le sue carte in Egitto. Difficilmente oggi può arrivare a far paura davvero ad al Sisi, ma nel Sinai il discorso è diverso: da due anni a questa parte l'esercito egiziano non è mai riuscito a controllare davvero la regione. E c'è di più: nelle ultime ore è circolato un video in cui il califfato lancia un ammonimento anche ad Hamas, accusato di aver contrastato l'ascesa dei Qaedisti nella Striscia di Gaza e viene bollato con la più infame delle accuse oggi nella galassia jihadista: aver preso soldi e armi dagli odiati nemici iraniani. Sono solo parole o è una minaccia seria? E se così fosse chi sarebbe in grado di fermare l'avanzata del Califfato se - anziché puntare sul Cairo - si dirigesse a Gaza, per issare la sua bandiera sul simbolo mediaticamente più potente di tutti?
Queste sono le domande che aleggiano oggi sul Sinai e sull'Alto Egitto. Con un corollario che faremmo bene a non dimenticare: con i suoi 8 milioni di fedeli la comunità copta è l'ultima popolosa comunità cristiana rimasta nell'area che va dal Marocco alla Turchia. E le prime drammatiche piaghe della nuova persecuzione di oggi l'ha già vissuta in alcune zone dell'Egitto nell'estate del 2013, dopo la caduta di Morsi. Non è difficile capire che cosa potrebbe succedere se davvero lo Stato Islamico - attraverso gli alleati di Ansar Beit al-Maqdis - dovesse riuscire a fare del Sinai una sua nuova roccaforte.