Lockdown: l'Italia ha esportato il modello cinese nel mondo
“In questi giorni il lockdown pare inevitabile. Ma se la Cina non lo avesse fatto, l’anno che abbiamo vissuto sarebbe stato molto diverso”, dice Neil Ferguson, che conferma anche un sospetto che abbiamo tutti: il modello cinese era ritenuto impossibile da imitare, proprio perché tipico di una dittatura. Ma poi... “E allora l’Italia lo fece (applicò il lockdown, ndr). E noi realizzammo che si poteva fare”. Come è stato possibile? Qui un breve riassunto delle puntate precedenti.
“In questi giorni il lockdown pare inevitabile. Ma se la Cina non lo avesse fatto, l’anno che abbiamo vissuto sarebbe stato molto diverso”. A pronunciare questa frase è Neil Ferguson, dell’Imperial College, uno dei principali strateghi e proponenti della strategia di chiusura. Lo ha affermato in una intervista rilasciata al Time che involontariamente è una delle più limpide dimostrazioni di come “l’inevitabile” fosse ritenuto “impossibile” fino a meno di un anno fa. L’anno sarebbe stato certamente molto diverso, se non fosse partito l’effetto imitazione della Cina, ma sarebbe stato peggiore? Ciò che sottolinea Ferguson è ancor più inquietante per noi, perché ritiene che sia stata proprio l’Italia del governo Conte a lanciare il modello cinese anche in Occidente.
“Naturalmente sapevamo che fosse possibile che il distanziamento sociale potesse permettere il controllo del virus di una malattia respiratoria – spiega Ferguson – Ma ci sono costi immensi ad esso associati”. Il professore britannico pensa “che la percezione comune su ciò che è possibile fare in termini di controllo sia cambiato abbastanza repentinamente fra gennaio e marzo”. Detto in termini più espliciti: fino a febbraio era ritenuto (comprensibilmente) una follia chiudere in casa decine di milioni di persone, oltre che impossibile in una democrazia che garantisce i diritti umani. La strategia cinese era possibile, ma solo perché era una dittatura: “E’ un Paese comunista a partito unico, dicevamo allora. Non potremmo mai imitare gli stessi metodi in Europa, pensavamo”. Ma poi… “E allora l’Italia lo fece (applicò il lockdown, ndr). E noi realizzammo che si poteva fare”.
Nel settembre scorso, alla vigilia della seconda ondata in Europa, il giornalista Michael Senger, sulla rivista The Tablet, analizzò come, passo dopo passo, la propaganda cinese si sia imposta nella narrazione della lotta al virus, portando all’esportazione del lockdown in tutto il mondo. Dopo aver cercato di nascondere l’esistenza stessa dell’epidemia a Wuhan, dall’ultima settimana di gennaio: “Xi Jinping autorizzò personalmente la chiusura della provincia dello Hubei, in base alla sua filosofia del fangkong, la stessa dottrina ibrida sanitaria-securitaria che aveva già ispirato la rieducazione di massa e la quarantena di più di un milione di uiguri musulmani ‘infettati dal virus dell’estremismo’ nello Xinjiang. I rappresentanti in Cina dell’Organizzazione Mondiale della Sanità avevano sostenuto che: ‘cercare di chiudere una città di 11 milioni di persone è una novità per la scienza. Il lockdown di 11 milioni di persone è una scelta senza precedenti nella storia della sanità pubblica, dunque non è certamente frutto di una raccomandazione fatta dall’Oms’”.
Di fronte a una strategia tanto brutale, le reazioni del mondo occidentale furono (ancora, comprensibilmente) di sdegno e condanna. All’inizio di febbraio, sul New York Times, attualmente uno dei quotidiani che maggiormente sostengono il lockdown, un esperto scriveva, con ingenua certezza: “La chiusura porterà quasi inevitabilmente alla violazione dei diritti umani e sarebbe decisamente incostituzionale se venisse applicato negli Stati Uniti”. Due mesi dopo…
Tornando all’Italia: come mai proprio il nostro Paese ha avuto l’onore di sdoganare la strategia del lockdown nell’Occidente democratico? La Lombardia e il Veneto sono state le prime regioni europee e occidentali, in senso lato, ad aver registrato i primi focolai del nuovo coronavirus, dal 19 febbraio. Allora c’erano già altri esempi di strategie alternative rispetto a quella cinese: Giappone, Taiwan, Singapore, Corea del Sud, tutte rivelatesi molto più efficaci e rispettose dei diritti umani. Ma il mondo occidentale ha avuto la sfortuna di veder comparire la nuova malattia proprio nel più filo-cinese dei governi europei, nel Paese di Giuseppe Conte fresco di firma dei protocolli della Nuova Via della Seta. Il 9 marzo veniva adottata la decisione di fare di tutta la penisola una gigantesca zona rossa, 60 milioni di persone chiuse in casa, una strategia ancor più drastica rispetto a quella cinese: Xi Jinping aveva chiuso 50 milioni di persone dello Hubei, però in una nazione da 1 miliardo e mezzo di abitanti. Già il 12 marzo, esperti cinesi invitati dal governatore della Lombardia facevano la loro comparsa a Milano, lamentando che ci fosse ancora “troppa gente in giro”. Una frase che poi sarebbe diventata una costante nelle prediche social e nei media. Ma, parallelamente, l’Italia veniva bombardata di propaganda cinese. Secondo un’inchiesta del quotidiano Formiche, dall’11 al 23 marzo, circa il 46% dei tweet con l’hashtag #forzaCinaeItalia e il 37% di quelli con l’hashtag #grazieCina erano generati da bot, quindi da un’intelligenza artificiale creatrice di contenuti virali, un metodo tipico della propaganda. Più tardi, il Dipartimento di Stato degli Usa scoprì un campione di 250mila account probabilmente impiegati nell’operazione di disinformazione sul coronavirus.
Con mezzi moderni, dunque, la Cina ha letteralmente “stregato” l’Italia. Nel frattempo anche l’Oms lanciava l’idea che il modello cinese di lotta all’epidemia “antico, ma molto flessibile e straordinariamente efficace”, fosse da imitare in tutto il mondo. Tuttavia, al di là delle linee guida dell’agenzia Onu, è proprio l’Italia, come sottolinea Ferguson, ad aver sdoganato la strategia cinese. Abbiamo mostrato che i metodi totalitari possono funzionare anche in una democrazia. Oggi abbiamo un numero di morti in rapporto alla popolazione che è fra i più alti nel mondo e una delle più gravi crisi economiche nell’area Ocse. Ma possiamo vantarci di aver esportato il modello comunista cinese nel mondo libero.