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DISPERSIONE SCOLASTICA

«L'obbligo deprime la capacità di scegliere»

Parla Riboldi, Faes:«La scuola statale spesso non mantiene ciò che promette e non rispetta le diverse attitudini dei ragazzi».

Attualità 25_03_2011
scuola

 

Secondo una recente stima pubblicata sulla rivista Tuttoscuola, e ripresa da Corriere della Sera del 16 marzo scorso, sono 120.000 all’anno i giovani che lasciano la scuola statale senza entrare in alcun altro percorso formativo.
Il numero complessivo di coloro che escono dalla scuola (statale) ogni anno è addirittura di quasi 190.000, di cui circa 70.000 si iscrivono poi a scuole non statali o seguono corsi di formazione professionale (gestiti dalle regioni).

La percentuale ufficiale di abbandono precoce di qualsiasi percorso formativo che si registra in Italia è del 19,7%, cinque punti più alta di quella media europea. E’ vero che negli ultimi dieci anni sono stati realizzati notevoli progressi (nel 2000 la percentuale italiana superava il 25%), ma il traguardo minimo del 10% fissato dal piano di Lisbona per il 2020 sembra assai lontano

Appare evidente che, nonostante la scuola
statale sia gratuita, non appena cessa l’obbligo formale di frequentarla, quasi 200.000 giovani intorno ai 16 anni decide di abbandonarla.
Si badi bene, questo è un problema specifico della scuola statale, visto che chi può, lasciata la scuola statale, si iscrive in una scuola non statale (ben 70.000 giovani su 190.000).

Sui motivi di quella che, fino a non molti anni fa, veniva chiamata “evasione scolastica” e oggi si definisce con il solito eufemismo “dispersione scolastica”, sono ovviamente possibili molte considerazioni a seconda dell’angolo visuale dal quale vengono svolte.
Qui vorremmo considerare il problema, che , trattandolo dal punto di vista della natura e dei fini della scuola, tenendo ben presente che le considerazioni che seguono hanno come oggetto la scuola statale, quella dalla quale gli studenti fuggono in quantità impressionanti.

Può essere utile illustrare
alcune delle più vistose e dannose contraddizioni che affliggono la scuola, a causa dello smarrimento dei suoi fini.

Cominciamo con la più evidente:
la scuola obbligatoria ,di diritto fino ai 14 anni, lo è di fatto fino al raggiungimento del diploma, poiché i modelli sociali oggi vigenti, ampiamente richiamati nell’articolo del Corriere della sera del 16 marzo che ha riportato i dati della dispersione scolastica, ci fanno credere che la mancanza di un titolo di studio sia un ostacolo psicologico e pratico insormontabile per una giovane che aspiri ad avere una vita dignitosa.

Una volta dato questo obbligo, si chiede agli obbligati un impegno indefesso senza offrire in cambio una qualificazione che sfoci in un’attività professionale sicura e in tempi ragionevolmente brevi. Quali le soluzioni più diffusamente praticate?

Visto che quel che conta è il titolo di studio, per quel che vale, allora non contano i mezzi adoperati per ottenerlo: da qui il disimpegno e il formalismo che permeano di sé la vita scolastica di molti studenti. Dall’altra parte, se nemmeno a queste condizioni il diploma è conseguibile, allora si abbandona la scuola.

Sottesa a questo “ragionamento” c’è la percezione,
non sempre chiara, di una vocazione negata; negata non solo negli studenti obbligati a studiare controvoglia, ma anche nei docenti, quelli almeno che credono al proprio lavoro, costretti a “pascolare le pecore”, come scriveva E.Pound, anziché a insegnare.

Qualcuno sostiene che la scuola,
anche se non qualifica professionalmente, potrebbe contribuire alla formazione culturale degli studenti.
Fatta salva la legittima aspirazione delle famiglie che ricorrono alla scuola per ottenere la cosiddetta “cultura di base” per i propri figli – compito al quale sembra ancora adempiere con sufficiente efficacia la scuola primaria anche statale-, è veramente pensabile che la cultura possa imporsi come un obbligo “scolastico” a cui adempiere nella scuola statale? Soprattutto a giovani da 16 anni in su?

E con quali risultati? Questa scuola ha provato a “dare cultura”, ma, rispecchiando ampiamente le tendenze dominanti della società che la genera, è convinta che ciò debba avvenire a scapito di altri “corpi sociali” che hanno più titoli per farlo, come la famiglia, gli amici, il mondo del lavoro.

In altre parole, è una  scuola tende
ad essere totalizzante se non totalitaria e tende ad esserlo proprio in quanto obbligatoria. La prova di questa tendenza, quella cioè di essere l’unica possibilità educativa, è data dal tentativo reiterato e invocato dagli stessi dirigenti scolastici, oltre che da genitori sempre più inconsapevoli del proprio ruolo, di prolungare il tempo scolastico introducendovi qualunque attività, anche quelle che alla scuola non competono affatto.
(In realtà la prova più evidente di questa tendenza è il tentativo reiterato di soffocare l’esistenza della scuola non statale, tentativo messo in atto da ampi settori della dirigenza e del corpo docente della scuola statale).

A parole, quindi, la scuola nega
la possibilità che vi sia qualcosa di meglio che andare a scuola, ma nei fatti non è in grado di fornire granché, sia per ciò che propone, sia per “come” lo propone.Gli studenti sentono che è falso ritenere questa scuola il migliore dei mondi possibili e la rifiutano.

Un altro equivoco che complica
la soluzione dei problemi è quello di continuare a sostenere che tocca alla scuola darsi da fare per migliorare la società: è vero il contrario. La scuola che abbiamo è il frutto della società in cui viviamo, per cambiare la scuola occorre partire dagli adulti, dalla società.

Altrimenti accade quel che vediamo sotto i nostri occhi: i valori educativi proposti nella scuola sono vissuti da studenti e docenti come pseudo valori, in quanto tali infondati, privi di finalità che non siano il tornaconto personale. Ecco che, allora, “democrazia, rispetto delle istituzioni, convivenza civile, disciplina, merito” diventano entità da venerare formalmente, quel tanto che basta a ottenere il lasciapassare per il successo: il diploma.

A proposito dei valori, che preferiremmo chiamare “ideali”,
bisogna aggiungere che, per un malinteso pluralismo che coincide con un relativismo pressoché totale, essi non hanno patria all’interno della scuola statale, perché non ce l’hanno nella società. Dovrebbe stupire vedere come vengano richiesti alle scuole “progetti educativi”, quando tutti sanno che per educare occorre sapere chi è che si educa e per cosa: ma il “pensiero debole “ relativista insegna che non si sa bene chi è l’uomo, non si sa bene o non esiste la verità, non si sa perché punire, visto che non si può parlare di colpe, ma solo di desideri da soddisfare, in una parola è impossibile parlare di fini, di sacrifici e di comportamenti autentici. Come può la scuola avere un “ progetto educativo” se non generico e provvisorio, alla fine per nulla realizzabile.

Il rovescio della medaglia è che,
mentre la scuola impone il modello del successo obbligatorio, scava la fossa a chi cade in questa trappola: insegna a temere come unico male il fallimento e lo insegna proprio come lo insegna la società che vede nel fallimento, soprattutto economico, ma non solo, l’unico peccato mortale di un uomo.

Lo insegna facendo creder che bocciature  brutti voti siano marchi infamanti, che siano possibili infinite possibilità di scelta e che rinunciare anche a una sola possibilità sia uno spreco insopportabile e, per questo, le scelte devono essere procrastinate il più possibile; lo insegna temendo l’errore e il rischio, che nel rapporto educativo sono indispensabili, sforzandosi di allontanarli sempre più con un’infinità di mezzi didattici e non. E, si badi, fa tutto questo nello stesso momento in cui si pone come unica, obbligatoria, via al successo.

Questo spiega perché tutti devono essere promossi,
ma spiega anche perché tanti adolescenti, di fronte agli insuccessi scolastici decidono che è meglio interrompere e lasciano la scuola non per aver  scelto positivamente altro, ma con l’amaro in bocca di chi non è stato capace di farcela.

Quanto più vera sarebbe una scuola
che si mostrasse rispettosa delle vocazioni di ciascuno e quanto più umana una società che si sforzasse di offrire a tutte le vocazioni l’opportunità di realizzarsi, senza obbligare nessuno a percorsi forzati e non appaganti.

Potremmo chiamare questa scuola con il nome di “speranza”.
Essa è pietosa, perché non svela mai pienamente a chi studia le ragioni del fallimento e della riuscita, ed è fiduciosa perché crede nelle libere possibilità del maestro e dello scolaro. Non è scettica: ha il coraggio di giudicare, sapendo di essere fallibile. Non opprime ed è capace di insegnare che esiste altro fuori di essa.
Altre forme di scuola ci promettono il trionfo, la perfezione, la felicità: ma non ci daranno mai neppure quel bene modesto e  prezioso che essa sola ci dona e che è la capacità di attendere.