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IL CASO

Lo squallore di Sanremo svela l’indecenza della RAI

Spenti i riflettori del teatro Ariston sul Sanremo 2023 rimangono tante macerie, anche morali. Se i vertici Rai sapevano, è giusto che paghino. Se non sapevano è ancora più grave perché si conferma l’anarchia che caratterizza la tv pubblica.

Cinema e tv 13_02_2023

Nel caso del Festival di Sanremo appare calzante la frase del Vangelo di Matteo: “A ciascun giorno basta la sua pena”. Milioni di italiani inchiodati alla tv per una settimana intera nella speranza di ascoltare buona musica e invece costretti a subìre di tutto di più, sera dopo sera, con un’escalation di squallide sceneggiate per ossequiare il dio share, compiacere i teorici dell’ideologia gender e compiere le consuete operazioni di killeraggio politico.

I fatti sono arcinoti, visto lo stucchevole bombardamento mediatico delle ultime ore. Sembra quasi passata in secondo piano la vittoria di Marco Mengoni, perché il Festival sa essere scontato nelle cose importanti (Mengoni era strafavorito e dunque non è una notizia il fatto che abbia vinto) e imprevedibile nelle sconcezze e nelle oscenità.

Rosa Chemical, che ha portato all’Ariston il tema del gender fluid, con la sua canzone “Made in Italy” era sicuramente tra gli artisti più attesi della quinta serata del 73esimo Festival di Sanremo. Durante la sua esibizione è sceso nel pubblico, simulando un atto sessuale con Fedez e poi portandolo sul palco per dare scandalo con un bacio in bocca ostentato platealmente dinanzi al pubblico in sala e a milioni di telespettatori sintonizzati da casa.

Al di là delle giustificazioni di rito post-Festival, pare che quel bacio omosessuale non sia stato un gesto spontaneo ma programmato. E l’interrogativo sull’effettiva complicità dei vertici Rai non è ozioso. Una tv pubblica pagata con il canone versato dai cittadini italiani può diventare il palcoscenico di volgarità e scene erotiche simulate e magari anche pianificate?

Nei giorni scorsi, anche attraverso la nostra testata, oltre che nell’aula di Montecitorio, Maddalena Morgante, deputata di Fratelli d’Italia, poi presa di mira dagli haters, aveva denunciato questo misto di poligamia, porno e masturbazione che sarebbe andato in onda sulla tv pubblica in fascia protetta proprio grazie a Rosa Chemical. Nessuno, però, si è stracciato le vesti, né per difendere la Morgante dagli squallidi attacchi subìti subito dopo in Rete, né per prevenire queste degenerazioni, che finiscono per offendere il buon costume.

È sembrata francamente molto tiepida anche la reazione degli stessi vertici di Fratelli d’Italia, Meloni compresa, che probabilmente hanno lasciato che la corda si spezzasse per poi gridare allo scandalo e avere il pretesto per fare il sospirato repulisti nella tv pubblica. Ma probabilmente sarebbe stato meglio prevenire questa deriva nichilista del Festival e tentare di riportare la kermesse sanremese nei canoni della pubblica decenza, scongiurando altresì il rischio di esternazioni politiche e ideologiche, che ancora una volta si sono puntualmente verificate.

Un rapper come Fedez che sponsorizza la cannabis e insulta il viceministro Galeazzo Bignami mostrando e poi strappando in diretta una sua foto in cui viene ritratto in maschera da nazista, non esercita la libertà di manifestazione del pensiero né può assurgere a icona del mondo giovanile, ma diventa il vessillo di quei settori della sinistra che fomentano l’odio nei confronti dell’avversario, trattato da nemico e messo alla gogna solo in nome di un’idea politica diversa dalla propria. Quella di Fedez è dunque intrinsecamente una esibizione “fascista” perché basata sull’assenza di contraddittorio peraltro in un contesto in cui la tv pubblica dovrebbe garantire pluralismo ed equilibrio. Non dimentichiamo, peraltro, che eravamo alla vigilia del voto regionale di ieri e oggi e dunque sarebbe stato quanto mai opportuno mantenere uno stile sobrio ed evitare di toccare argomenti sensibili come quello della propaganda politica.

Sono dunque lacrime di coccodrillo quelle del premier e dei suoi fedelissimi, che attaccano i vertici Rai e vorrebbero accelerarne la sostituzione, in realtà prevista fra oltre un anno. Si vocifera che l’amministratore delegato Carlo Fuortes potrebbe dimettersi, anche se la poltrona alla quale lui ambisce, quella ai vertici del Teatro La Scala di Milano (come sovrintendente), non sarebbe disponibile. In alternativa, Fuortes potrebbe rimanere in viale Mazzini, ma “commissariato” da Giampaolo Rossi, fedelissimo della Meloni, che verrebbe nominato direttore generale con grandi poteri. Una sorta di compromesso per evitare la grancassa mediatica, visto che in caso di siluramento di Fuortes i giornali anti-governativi, che sono la maggioranza (durante il governo Draghi erano invece un’esigua minoranza), avrebbero buon gioco nell’alimentare la narrazione della censura di regime, del bavaglio e di nuovi editti contro la libertà di stampa.

Meglio, dunque, per i partiti di governo non cadere nella trappola e non farsi trascinare nel clima burrascoso di viale Mazzini, ma puntare a condizionare in modo crescente la gestione di palinsesti e programmi, per poi intervenire sulla governance nel 2024, a scadenza naturale.

Spenti i riflettori del teatro Ariston rimangono, come al solito, tante macerie, anche morali. Una manifestazione ridotta a tribuna elettorale e tempio dell’edonismo deteriore diventa un pessimo biglietto da visita per l’Italia nel mondo. Se i vertici Rai sapevano, è giusto che paghino. Se non sapevano, per certi aspetti è ancora più grave perché si conferma l’anarchia che caratterizza la tv pubblica, incapace di assicurare un puntuale rispetto dei suoi precisi doveri contenuti nella Convenzione con lo Stato e nel Contratto di servizio. Hanno ragione Salvini e Conte: urge più che mai una riflessione sul futuro della Rai.