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RACE

Lo "schiaffo" di Owens a Hitler: tutta la verità in un film

Nella sua autobiografia, uscita nel 1970, ribadì la verità, ma nessuno, neanche allora se lo filò. Troppo ghiotta la sua strepitosa vittoria  alle Olimpiadi di Berlino del 1936 ai fini propagandistici. Stiamo parlando di Jesse Owens, uno dei più grandi atleti di tutti i tempi. Ora un film ristabilisce la verità su quel trionfo.

Cinema e tv 12_01_2016
La locandina del film Race

Nella sua autobiografia, uscita nel 1970, ribadì la verità, ma nessuno, neanche allora se lo filò. Troppo ghiotta la sua strepitosa vittoria ai fini propagandistici. Stiamo parlando di Jesse Owens, uno dei più grandi atleti di tutti i tempi. La storia (quella divulgata) è nota: l’americano Jesse Owens, giovane nero dell’Alabama, alle Olimpiadi di Berlino del 1936 stracciò tutti gli “ariani” sotto gli occhi di Hitler, che per il dispetto se ne andò rifiutandosi di stringergli la mano. 

Ora, il fatto è che Hitler era cattivo quanto si vuole, ma non stupido: se si fosse davvero comportato così, il suo gesto sarebbe equivalso a un boomerang pubblicitario. É risaputo che quella Olimpiade doveva essere la vetrina mondiale della nuova Germania nazista (Hitler era salito al potere solo tre anni prima e in base a regolari elezioni), tanto che la regia coreografica era stata affidata alla famosa Leni Riefenstahl, che ne trasse il film-capolavoro (ancora oggi, pur obtorto collo, ammirato dalla critica) Olympia. Jesse Owens in pochi giorni vinse ben quattro medaglie d’oro: 100m., 200m., salto in lungo e staffetta 4x100. Goebbels scrisse nel suo diario che l’umanità bianca avrebbe dovuto vergognarsi, e di certo a Hitler quell’exploît della negritudine andò di traverso. Ma, se accusò il colpo (e figuriamoci se non lo accusò), fu così abile da non darlo a vedere. 

Testimoniò lo stesso Owens che, dopo la premiazione, sceso dal podio passò davanti al palco del Fuhrer. E questi si alzò in piedi salutandolo con un cenno della mano, saluto che Owens ricambiò nello stesso modo. Hitler era livido? Era furente? Se sì, dovette nascondere bene la sua collera, perché nessuno se ne accorse. Certo, contento non era: Owens aveva lasciato al palo, nel salto in lungo, il migliore atleta che la Germania potesse vantare, Luz Long. Ma carta canta. Gaia Piccardi, sulla pagina sportiva del Corriere.it (2 gennaio 2016), riporta la testimonianza del giornalista tedesco Siegfred Mischner, il quale, presente ai fatti, qualche anno fa riferì di aver visto personalmente Hitler stringere la mano a Owens nei corridoi dello stadio olimpico. Owens, in seguito, più volte provò a dirlo ma nessuno, tra i giornalisti occidentali, volle mai dargli retta. 

Il grande atleta è scomparso dal 1971 e ora è la figlia Marlene (chissà perché un nero americano doveva dare alla figlia un nome tedesco) a portare avanti la Jesse Owens Foundation. Nonché la verità su quell’episodio. E finalmente ha trovato chi le ha dato retta. In febbraio, infatti, uscirà un film sul campione nero, Race (“gara”), del regista australiano Stephen Hopkins, nel cui cast figurano star del calibro di Jeremy Irons e William Hurt (Carice Van Houten, già protagonista di Black book di Paul Verhoeven, fa la parte di Leni Riefenstahl). Un film che farà discutere, dal momento che si propone di raccontare le cose come sono effettivamente andate. Owens, in effetti, venne snobbato, sì, ma, paradossalmente, non da Hitler, bensì dal suo stesso presidente, Roosevelt. 

Questo presidente, espressione del partito democratico (di sinistra), non volle mai ricevere Jesse Owens per un meschino calcolo elettorale: impegnato nella campagna per la sua rielezione, temeva di perdere voti negli Stati del Sud. Roosevelt ebbe la sua rielezione, ma Owens se la legò al dito. Infatti, si iscrisse (lui, nero del Sud) al Partito Repubblicano (di destra) e ne divenne attivista. Owens era, dunque, un ammiratore di Hitler? Ci mancherebbe. Ma il fatto che il capintesta del razzismo biologico avesse dovuto inchinarsi a un “negro” era per lui una medaglia in più, forse superiore alle altre quattro. E uno schiaffo morale al capo di quella nazione per i cui colori aveva vinto. Per il resto, niente di cui stupirsi. Le Olimpiadi, piaccia o no, sono una vetrina e, dunque, un fatto politico. E le guerre si combattono anche –se non soprattutto- con la propaganda. Ogni tanto, quando la verità diventa neutra, le cose vengono a galla e le si può dire senza timore di finire linciati. Anzi, magari ci si può fare qualche soldo.