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ORA DI DOTTRINA / 12 - IL DOCUMENTO

Lo scandalo dell'Antico Testamento, di Vittorio Messori

Spesso ci si scandalizza del Dio dell'Antico Testamento, che non sembra affatto "buono" come pretenderebbe Gesù. Ma tutto va inquadrato in una storia complessiva di coinvolgimento divino che, partendo dall’alleanza con Abramo, va verso il suo sbocco logicamente inevitabile: l’incarnazione, il farsi uomo tra gli uomini di Dio stesso.

Catechismo 20_02_2022

(…) L’insistenza attuale per una lettura personale della Bibbia porta quasi sempre allo scandalo per il Dio dell’Antico Testamento. Non si riesce a capire che razza di Dio «buono» possa essere questo, che cosa abbia a che fare con il Padre infinitamente amoroso presentato da Gesù.

È uno scandalo antico, tanto che, nella Chiesa, non mancarono proposte di lasciare a Israele quel suo Jahvé e di accettare solo il Nuovo Testamento. Ma la Chiesa, lo si sa, resistette sempre a queste tentazioni di amputare la Bibbia della sua prima parte. Perché questa resistenza?
Come giustificarla ancora oggi, davanti a interlocutori cui la fede sembra preclusa (o la cui fede vacilla) scoprendo un’immagine di Dio più che mai lontana dalla sensibilità moderna?

Mi è sempre sembrato che un inizio di risposta stia nell’annotazione nel Diario di Paul Claudel. Scrisse il grande poeta e scrittore cattolico: «Si leggono di continuo tante sciocchezze e diffamazioni sulla ferocia di Jahvé, il Dio dell’Antico Testamento, che si cerca di mettere in contraddizione con il Nuovo. Io, al contrario, piango e il mio cuore si scioglie, vedendolo così pieno di dolcezza e di tenerezza. Sono i suoi stessi eccessi di collera che me lo rendono così simpatico, questo Padre, e così vicino. Si sente che non sa davvero più che fare con quei suoi figli discoli, spesso sciocchi, riottosi, ostinati, ingrati. Si sente che gli fanno perdere la pazienza, anche se mai l’amore. Non si parla che di questo, nel ménage della Trinità: “Qui, siamo obbligati a fare qualcosa di estremo…”. Dimitte filium meum, Israel (Es 4,23). Che bontà verso il suo popolo, tenuto così sotto le sue ali!».

Dato a Claudel quel che è del poeta (con quella «trovata», peraltro affascinante, del ménage trinitario, dove si decide la mossa estrema di mandare in missione il Figlio stesso) credo che possa essere questa una possibile strada dove indirizzare la riflessione nostra e quella dei fratelli, in difficoltà davanti all’Antico Testamento. Il quale è da inquadrare in una storia complessiva di coinvolgimento divino che, partendo dall’alleanza con Abramo, va verso il suo sbocco logicamente inevitabile: l’incarnazione, il farsi uomo tra gli uomini di Dio stesso.

Dunque, bisognerà richiamare l’attenzione sulla radicale «diversità» del giudeo-cristianesimo rispetto al deismo dei filosofi e dei massoni, per i quali l’Ente Supremo, il Sommo Architetto dell’Universo se ne sta impassibile, infinitamente al di sopra di una storia con la quale non vuole compromettersi (il Dio che, stando all’espressione di Pascal, «dato un colpetto al mondo per metterlo in moto, si è ritirato nella sua lontananza»).

Ma c’è una radicale «diversità» giudeo-cristiana anche rispetto all’altro monoteismo che, pur esso semita, vede in Allah il «misericordioso» ma non certo sino al punto di sporcarsi le mani nelle vicende umane. Islàm vuol dire «sottomissione»: non è un caso che una simile parola dia nome a tutta una religione. «Sottomissione», che è la chiave del Corano, è il contrario delle parole che, nella Bibbia, indicano il rapporto tra Creatore e creatura: «alleanza», «patto», poi persino «nozze», per giungere infine all’inaudito: «incarnazione». «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

Una volta compresa questa dinamica, davvero unica nel panorama religioso dell’umanità, lo scandalo della Bibbia può trasformarsi nel suo contrario: un motivo per prendere sul serio un messaggio in cui ben a ragione Dio è chiamato con il nome di Padre, che è un nome che manca nei 99 attributi di Allah che il pio musulmano ripete sgranando il suo rosario. Un Dio che non solo ci crea, ma che ci prende tanto sul serio da adattarsi a noi: è la «condiscendenza divina» di cui parlano i Padri, e che porta Colui che è l’Eterno a essere al contempo il protagonista della storia delle sue creature. Adirandosi, pentendosi, sgridando, lodando, premiando, castigando: in una parola, amando. Il «preludio» al vangelo non poteva essere il Corano, ma solo l’Antico testamento, con quel suo sbocco finale nel Verbo, nella Seconda Persona della Trinità divenuta persona con il nome di Gesù il Nazareno.

Occorre dunque indicare (a noi stessi e agli altri) questo movimento generale che si sviluppa lungo tappe successive, nell’arco dei due millenni precristiani, invitando al contempo chi sia perplesso a non arrestarsi di fronte a episodi, espressioni, personaggi, segnati da diversi generi letterari, condizionati tutti dalla mentalità antica.

Non dimentichiamo che legge fondamentale per chi voglia capire la storia – e la Bibbia è anche storia, seppure, per il credente, sacra, perché attraverso di essa ci giunge la salvezza – è che gli avvenimenti del passato vanno giudicati non in base alla nostra mentalità, ma in base a quella contemporanea ai fatti.

Ciò che scandalizza noi sembrava spesso buono, o almeno indifferente, a quegli antichi. E, al contrario, ciò che noi giudichiamo buono era motivo di orrore per il pio israelita; valga per tutti il caso dell’aborto che, attraverso Mosè, Dio proibisce senza appello: «Non vi sarà nel tuo paese donna che abortisca» (Es 23,26). O il caso dell’omosessualità, motivo oggi di orgoglio, mentre per l’Antico Testamento è causa di orrore, tanto da provocare infallibilmente e senza appello la pena capitale. Non sarà male, dunque, riflettere anche sul fatto che lo scandalo eventuale non è a senso unico: in qualche caso è l’uomo dell’Antico Testamento che avrebbe le sue buone ragioni per scandalizzarsi di noi.