Lizzano, il dialogo del vescovo non è secondo dottrina
L’intervento del vescovo di Taranto sui fatti di Lizzano, se applicato in tutte le sue conseguenze, impedirebbe di adoperare la Dottrina sociale della Chiesa. È una delle tante stranezze dell’episcopato italiano di oggi.
Le parole del vescovo di Taranto, mons. Filippo Santoro, dopo i fatti di Lizzano, su cui non cessano i commenti di sconcerto, chiedono una valutazione anche dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa. Il vescovo Santoro è anche Presidente della Commissione della CEI per i problemi sociali e il lavoro, ossia della Commissione che dovrebbe occuparsi specificamente e direttamente di Dottrina sociale della Chiesa. A mio modo di vedere, però, l’intervento del vescovo di Taranto, se applicato in tutte le sue conseguenze, impedirebbe di adoperare la Dottrina sociale della Chiesa. È una delle tante stranezze dell’episcopato italiano di oggi.
Come noto, il vescovo dice che la preghiera non deve mai essere divisiva. Lo ha detto a proposito di una comunità parrocchiale che si era riunita per pregare affinché la legge cosiddetta contro l’omofobia non venisse approvata. La comunità in questione, come si sa, è stata aggredita da gruppi di attivisti LGBT, ma la colpa di essere stati divisivi è stata scaricata dal vescovo sui parrocchiani che si erano riuniti a pregare. Ciò perché non avrebbero usato il dialogo, ma la contrapposizione e la forza, in questo caso della preghiera.
La Dottrina sociale della Chiesa si occupa della verità e del bene della comunità politica e di ogni singolo uomo. Per la verità e il bene essa chiede di lottare, affinché essi trionfino, ossia guidino veramente il Legislatore e l’Autorità politica. La Dottrina sociale non può stare senza lotta, che non significa violenza o aggressività, significa impegno per la verità e il bene. Essa richiede la forza, ma nel senso della fortezza morale, della perseveranza, della resistenza al disagio e alle avversità che, quando si tratta di difendere la verità e il bene, non mancano mai. Le avversità sono anche rappresentate da persone che, in buona o cattiva fede, spingono per leggi sbagliate e per politiche disumane. Tutte le encicliche sociali dei Pontefici hanno chiamato soprattutto i laici, ma non solo essi, ad un forte impegno sia personale che collettivo nella società per favorire il bene e per contrastare il male. All’inizio dell’enciclica Centesimus annus, Giovanni Paolo II loda e ringrazia “l’opera feconda di milioni e milioni di uomini che, stimolati dal magistero sociale, si sono sforzati di ispirarsi ad esso in ordine al proprio impegno nel mondo”. Questi uomini hanno lottato e hanno usato la forza, intesa come contrapposizione al male e alle forze sociali e politiche che lo promuovono.
Le parole del vescovo Santoro lasciano intendere una equiparazione tra divisione e conflitto. Poiché lottare con forza per la verità produce divisione, allora ciò diventa illecito, dato che produce anche guerra reciproca. Le cose però non stanno così. La lotta sociale come conflitto - pensiamo per esempio alla lotta di classe nel comunismo - non è accettabile dal cristiano, ma la lotta per la verità è doverosa, anche se crea divisione. L’assenza di conflitto per la prevalenza del male non è vera unità e rompere questa falsa unità, creando anche divisione, dato che la verità divide per unire, è doveroso.
Il vescovo condanna tutto ciò e vi sostituisce il dialogo. In certi casi si può anche dialogare, come in altri casi bisogna pregare e in altri ancora lottare. Ma sostituire l’impegno della lotta e dell’uso della forza, nel senso sopra chiarito, con il dialogo è inaccettabile. La Dottrina sociale della Chiesa, che non si riduce ad un invito al dialogo, ne verrebbe distrutta. A parte l’osservazione che anche il dialogo, correttamente inteso, è una lotta o, meglio una disputa. Se il dialogo non equivale a chiacchiera, allora esso deve riguardare la verità e per farlo deve consistere in una lotta per confutare gli errori e far brillare la verità. A parte, quindi, che anche il dialogo è una lotta, bisogna poi notare che se, davanti al bene e al male, si indica solo la strada del dialogo vuol dire che si nega che esistano dei mali assoluti, che non contengono margini di discussione con cui li sostiene perché non contengono aspetti, neppure minimali, di bene. Questo è proprio il caso della legge Zan di cui si sta parlando. L’unico dialogo legittimo è quello finalizzato a convincere argomentativamente che il male è male e il bene è il bene, ma non il dialogo come lo presenta il vescovo di Taranto, ossia indirizzato a far emergere dal dialogo stesso il bene e il male.
Qual è allora la visione della società che sta dietro all’intervento del vescovo Santoro? Socialmente parlando non esistono il bene e il male se non in forma relativa, tutte le leggi sono imperfette incarnazioni della giustizia, nessuno ha ragione e nessuno ha torto in modo completo, pretendere di sostenere in questo campo delle verità assolute significa dividere, la cosa maggiormente utile da fare è di dialogare affinché dall’incontro reciproco possa uscire una migliore strada da seguire. Ma tutto questo non sembra avere rapporto con la Dottrina sociale della Chiesa.