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L'ANALISI

Liturgia e traduzioni, il rovesciamento delle gerarchie

Il dibattito innestatosi sul Motu Proprio Magnum Principium, che delega molti poteri alle Conferenze episcopali riguardo a traduzione e adattamento dei testi liturgici, sta mettendo in evidenza come la questione abbia conseguenze che vanno ben oltre la liturgia. Lo spiega monsignor Nicola Bux.

Ecclesia 26_11_2017

Il Motu Proprio Magnum Principium, riguardo alle traduzioni dei testi liturgici nelle lingue nazionali, ha provocato un acceso dibattito dopo che l'interpretazione autorevole data dal cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino, è stata smentita dallo stesso papa Francesco. Al centro della controversia sta il corretto rapporto tra Sede apostolica e conferenze episcopali riguardo la liturgia. Abbiamo chiesto all'esperto monsignor Nicola Bux un approfondimento. Data la complessità del tema e i numerosi aspetti da prendere in considerazione, l'intervento di monsignor Bux viene presentato in due puntate.

I padri della Chiesa non ammettevano qualsiasi fede, ma, secondo l'insegnamento di san Paolo, richiedevano sempre la fede ortodossa, ossia retta, sana e pura, a partire dalla professione battesimale. Inoltre, vedevano le preghiere liturgiche e i riti come espressione di questa fede, su cui aveva autorità la «beatissima Sede Apostolica..., in quanto tramandati dagli Apostoli in tutto il mondo e celebrati uniformemente in tutta la Chiesa cattolica, affinché la regola della preghiera stabilisca la regola della fede (ut legem credendi lex statuat supplicandi)» (Prospero, Capitula, 8: DS 246); si ricorda, in genere, solo quest'ultima parte del  principio enunciato da Prospero d'Aquitania, discepolo di sant'Agostino, non la prima parte, che chiama in causa la Sede Apostolica. Il principio, in vigore molto prima del V secolo, conferma il nesso intimo tra fede e liturgia.

Col Motu proprio Magnum principium, la Sede Apostolica rinuncia alla sua fondamentale competenza sulle traduzioni dei libri liturgici, in favore delle conferenze episcopali: la regolamentazione (moderatio) della sacra liturgia si capovolge,disponendo che sia esercitata dal basso verso l'alto. Invece, la Costituzione liturgica Sacrosantum Concilium (1963) attribuisce, in senso discendente, al Papa, al vescovo diocesano e alle conferenze episcopali, la funzione di moderare la liturgia secondo gradi differenti e subordinati (art.22). Per questo, la Sede Romana è l’autorità moderante primaziale della liturgia romana in tutta la Chiesa cattolica, mediante lo strumento esecutivo di tale «moderatio» che è la Congregazione per il Culto Divino.

La Sede Romana con le dovute differenze modera oltre ai riti occidentali cattolici, anche i riti delle Chiese cattoliche orientali mediante la Congregazione apposita. Giovanni Paolo II lo ha confermato nella Costituzione Pastor Bonus (1988) con cui ha riformato la Curia Romana: moderare e promuovere la sacra liturgia, in specie i sacramenti (art. 62-70). Il compito di mantenere l’ordine liturgico, di rimuovere gli abusi, di preparare i testi liturgici, di esaminare i calendari particolari ecc. sono le stesse competenze della Congregazione dei Riti istituita dopo Trento, a cui si è aggiunta di recente la revisione degli adattamenti compiuti dalle conferenze episcopali.

Sempre in base alla Sacrosanctum concilium n. 44, all’autorità della Santa Sede si affianca in subordine quella del vescovo diocesano e in certi limiti dei superiori religiosi maggiori, ossia in una parola l’Ordinario; poi quella delle conferenze episcopali; il primo e le seconde hanno come strumenti le commissioni liturgiche locali e nazionali o territoriali, con compiti di dirigere la pastorale liturgica, quindi esecutivi. Infine, la Sacrosanctum concilium n. 45-46, suggerisce l’istituzione di commissioni liturgiche diocesane e interdiocesane, e anche di musica sacra e di arte sacra, tra loro distinte o congiunte. Vi sono anche le commissioni congiunte o miste internazionali nei maggiori gruppi linguistici, che dovrebbero essere sottomesse alle conferenze episcopali rispettive. Purtroppo il lavoro di tali commissioni di esperti, per certi versi meritorio, non di rado è stato accusato, e non a torto, di aver preso il posto dell’autorità dei vescovi e «fabbricato» la liturgia, specialmente per quanto attiene alle traduzioni dei libri liturgici.

Lasciando da parte la querelle sul potere «in bianco» delle commissioni o stra-potere, rispetto a quello dei vescovi, affrontiamo piuttosto la questione di fondo, riguardante l’autorità primaziale della Sede Apostolica sulla liturgia: se e in che misura ce l’abbia. Klaus Gamber si domandava se il Papa abbia il diritto di modificare un rito risalente alla tradizione apostolica e tramandato attraverso i secoli. Secondo lo studioso tedesco, l’autorità ecclesiastica non ha mai esercitato influenza sull’evoluzione delle forme liturgiche ma ha solo sanzionato il rito tramandato e solo tardivamente, dopo l’apparizione dei libri liturgici a stampa, segnatamente in Occidente solo dopo Trento. E’ a questo che fa allusione, riferendosi al can. 1257 del Codex Iuris Canonici del 1917, la Costituzione liturgica nel già menzionato n. 22, quando recita: «Sacrae liturgiae moderatio compete unicamente all’autorità della Chiesa, che risiede nella Sede Apostolica e, a norma di diritto, nel Vescovo.[…] Di conseguenza nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica». Un avvertimento attuale per chi si proponesse di cambiare la Messa e addirittura le parole consacratorie, per motivi pseudo-ecumenici. 

Ora, in primo luogo, la “dottrina del caso per caso”, applicata alle traduzioni dei libri liturgici, porta a interpretare liberamente anche i testi, a seconda delle situazioni. Viene intaccato, così, il principio dogmatico lex credendi lex orandi. Una simile scelta è dannosa, per la Chiesa e per la fede dei semplici. Perciò, la messa in questione dell'Istruzione Liturgiam authenticam, va oltre l’aspetto liturgico, ed è sintomo di una concezione di Chiesa cattolica, come federazione di chiese nazionali o autonome: concezione che ha già portato il mondo ortodosso alla paralisi e quello protestante alla frantumazione. Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, esortava a: «Salvaguardare la natura stessa della Chiesa cattolica, che è basata su una struttura episcopale, non su una sorta di federazione di chiese nazionali. Il livello nazionale non è una dimensione ecclesiale. Bisogna che sia di nuovo chiaro che in ogni diocesi non c’è che un pastore e maestro della fede, in comunione con gli altri pastori e maestri e con il Vicario di Cristo».       

Ora, il nuovo Motu proprio del Papa, che demanda alle conferenze episcopali, oltre alla traduzione, anche la revisione (recognitio) dei libri liturgici, attribuita finora alla Sede Apostolica, priva codesta - come pure quella dei singoli vescovi - di quell'autorità di diritto divino, riconosciuta dalla Costituzione liturgica (22,1), a favore di una entità di diritto umano, per quanto ecclesiastico, qual'è la conferenza episcopale (cfr Rapporto sulla fede”, intervista del cardinale Ratzinger con Vittorio Messori, 1985).

L'interpretazione data dal Cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti – contestata dalla Lettera del Papa – si muove nel quadro dell' “ermeneutica della continuità e della riforma dell'unico soggetto Chiesa”, con cui Benedetto XVI guardava al Vaticano II, di cui la Costituzione liturgica è il primo frutto. Il Cardinale ha osservato che la conferma (confirmatio) da parte della Sede Apostolica, non avverrà in senso notarile, ma “solo dopo aver debitamente verificato che la traduzione sia «fedele» («fideliter»), ossia conforme al testo dell’editio typica in lingua latina in base ai criteri enunciati dall’Istruzione Liturgiam authenticam sulle traduzioni liturgiche”. Per tale ragione, Paolo VI aveva chiesto che le Conferenze Episcopali, collocassero nei messali il testo dell’ordinario e del  proprio, in sinossi bilingue: latina e nazionale.

In secondo luogo, la tendenza invalsa dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, a interpretare più che a tradurre fedelmente i testi in modo corrispondente all'edizione tipica latina dei libri liturgici, ha incrinatto l'unità del rito romano che la Costituzione liturgica presuppone, invece, doversi salvaguardare (n. 38). Infatti, il rito romano, come tutte le grandi famiglie liturgiche storiche della Chiesa cattolica, ha uno stile e una struttura propria che vanno rispettati in quanto possibile, anche per le traduzioni; queste attengono alla “sostanziale” unità del rito, in quanto traducono la parola divina e i testi eucologici da essa ispirati che, appunto, lo “sostanziano”; perciò, Liturgiam authenticam ricorda che la lingua dei testi tradotti, non va intesa come espressione della disposizione interna del fedele, ma piuttosto della parola di Dio rivelata. La lingua liturgica può, quindi, ragionevolmente divergere dal parlato ordinario, ma rifletterne al tempo stesso gli elementi migliori. L’obbiettivo, da perseguire, sarà lo sviluppo di un volgare dignitoso, atto ad essere destinato al culto, in un determinato contesto culturale.

L'Istruzione Liturgiam authenticam dedica un certo spazio a sottolineare l’importanza del rimando degli affari liturgici alla Santa Sede, parzialmente basandosi sul Motu Proprio di Giovanni Paolo II Apostolos suos del 1998, in cui si chiariva la natura e la funzione delle conferenze episcopali. La procedura di rimando, oltre che segno della comunione dei Vescovi col Papa, ha anche un valore di consolidamento di questa relazione. Essa è garanzia della qualità dei testi e ha per fine che le celebrazioni liturgiche delle Chiese particolari siano in piena armonia con la tradizione della Chiesa Cattolica lungo i secoli e in tutti i luoghi del mondo.

Per comprendere Liturgiam authenticam, quindi, bisogna essere convinti che, a partire dalla Pentecoste, quando nacque con destinazione universale, la Chiesa cattolica preceda ontologicamente le Chiese particolari, come affermato dalla Lettera Communionis notio, della Congregazione per la Dottrina della Fede ai Vescovi (1992). Invece, l'idea di “Chiesa sinodale”, intesa come insieme di enti autonomi, che si persegue in nome dell'inculturazione e del decentramento, finisce per assimilarla ad una entità politica. La Chiesa cattolica non è un concilio o un sinodo permanente – che pure costituiscono momenti straordinari della sua vita – ma la communio governata ordinariamente dal Primato romano, in due modi: da solo, e con i Vescovi ad esso uniti.

Al fine di garantire l’identità del rito romano sul piano mondiale, l'Istruzione Liturgiam authenticam tenta di riportare la questione alla Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, quanto al rapporto tra lingua universale e lingue particolari(cfr n. 63): questa si preoccupava appunto di conservare il latino nei riti latini, in specie nella preghiera eucaristica e collette. Già prima del concilio,infatti, i sacramenti venivano celebrati in latino e con inserzioni in lingua volgare. Per questo, la Costituzione da un lato prescrive: "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (n. 36, 1; cfr anche art. 54), dall'altro regola l'uso della lingua volgare (n. 36, 2-3): nella Messa e nei sacramenti “si possa concedere alla lingua volgare una parte più ampia”: sono menzionate letture, monizioni, alcune preghiere e canti, ma non le parti strettamente sacramentali come le formule e le preghiere epicletiche o consacratorie, che - analogamente al canone della messa e alle orazioni presidenziali - si riteneva ovvio che dovessero conservare il latino. La Costituzione pure raccomanda che i fedeli sappiano recitare e cantare in latino le parti loro spettanti(ivi, n. 54) come già fanno nella lingua parlata; che i chierici sappiano recitare in latino l’ufficio secondo la tradizione (ivi, n. 101); per altre parti come le letture e l’orazione dei fedeli prevede il volgare.

Perchè, parlando di traduzioni, è importante il latino, lingua delle edizioni tipiche dei libri liturgici della Sede Apostolica? Secondo Giovanni XXIII, se le verità cattoliche fossero affidate alle lingue moderne, soggette a mutamento, il loro senso non sarebbe manifesto con sufficiente chiarezza e precisione, senza il latino mancherebbe una lingua comune e stabile con cui confrontare il significato delle altre (cfr Costituzione apostolica Veterum sapientia, 22 febbraio 1962). Quindi, il latino tutela la dottrina in ragione del fatto che non è più soggetto a mutazioni; inoltre, papa Giovanni, non mancò di sottolineare il carattere “unitivo” della lingua latina anche «nel presente momento storico, in cui, insieme con una più sentita esigenza di unità e di intesa fra tutti i popoli, non mancano tuttavia espressioni di individualismo». Per questo, tale idioma «può ancora oggi rendere nobile servizio all’opera di pacificazione e di unificazione», giacché, non essendo legato «agli interessi di alcuna nazione, è fonte di chiarezza e di sicurezza dottrinale, è accessibile a quanti abbiano compiuto studi medi e superiori; e soprattutto è veicolo di reciproca comprensione.

                                                                                                                           (1. continua)