Lituania, i luoghi della resistenza al comunismo
La più lunga resistenza al comunismo in Europa fu in Lituania. Ed è ancora uno dei capitoli meno conosciuti della storia del Novecento. Fu una resistenza culturale, armata e spirituale. Siamo andati sui luoghi di questa lotta, nelle nuove catacombe: la sede di una casa editrice clandestina a Kaunas, un bunker di comando dei partigiani a Minaiciai e la Collina delle Croci a Siauliai.
Come sopravvivere a 57 anni di occupazione sovietica, alle deportazioni, allo sterminio e riuscire a preservare anche la propria cultura e la propria fede. E' questo l'esempio della resistenza lituana, episodio ancora molto poco conosciuto della storia europea. Dopo aver visto il luogo simbolo dello sterminio, la prigione del Kgb a Vilnius, ci siamo uniti ai giovani dell'associazione Identità Europea, guidati da Adolfo Morganti, per andare a vedere anche i luoghi della resistenza: culturale, armata e spirituale.
Resistenza culturale, prima di tutto: i sovietici avevano bandito tutte le pubblicazioni religiose, la letteratura nazionale incompatibile con il credo sovietico, le poesie patriottiche e i libri di storia non allineati. In Lituania, così come nelle altre nazioni occupate dall'Urss, venne praticato un lavaggio del cervello di massa, cancellando il passato e ricostruendo il presente secondo i dettami dell'ideologia marxista. In questo contesto, preservare la memoria del passato, diffondere una letteratura alternativa a quella ufficiale, era di cruciale importanza. Come nel romanzo distopico Fahrenheit 451, l'unico modo di conservare la propria umanità era memorizzare i libri. In un tranquillo sobborgo di Kaunas, in una piccola casa di collina venne svolto assiduamente questo lavoro: replicare, stampare e distribuire libri proibiti, di nascosto, nelle foreste, attraverso una rete clandestina. Dietro la casa c'è una serra, dentro la serra una vasca di cemento di tre tonnellate si può spostare e ci apre la strada verso un passaggio segreto. Sotto tre metri, entriamo in cunicoli in cemento che conducono a una tipografia che pare uscita da un museo del XIX Secolo. “Mi scuso per la scomodità di questo rifugio, ma quando lo avevamo scavato, chiaramente, non lo avevamo concepito per dei visitatori”, ci dice un'anziana signora, Birute, moglie di uno di questi coraggiosi uomini-libro: Vytautas Andziulis. Incontriamo anche lui, un uomo molto anziano dallo sguardo fiero. Per dieci anni, dal 1980 al 1990, assieme al socio Juozas Bacevičius gestì in questo scomodo buco una casa editrice clandestina, la AB: 23 titoli stampati, 138mila copie di tiratura. Nella tipografia sotterranea (non in senso metaforico, ma di 3 metri sotto terra) vediamo anche tanta letteratura religiosa, allora proibita. Da una vecchia radio sovietica (vecchissima anche per gli standard degli anni '80), la famiglia di editori ascoltava in segreto le trasmissioni di Radio Vaticana e di Voice of America. “Il mio primo scopo – ci spiega Birute – era quello di proteggere la famiglia. Ero particolarmente preoccupata dagli elicotteri, quando sorvolavano quest'area suonavo la campana. Tre rintocchi significavano pericolo grave”. C'erano quattro bambini da proteggere e il segreto stesso doveva essere protetto dalla loro ingenua curiosità. Quando andavano a distribuire clandestinamente i libri appena stampati, nei boschi, lontano dai centri abitati, dicevano loro che era solo una scampagnata. Quando, alla fine degli anni Ottanta, uno dei figli scoprì il passaggio segreto, Birute suonò con la campana il segnale di pericolo. I genitori dovettero dire mezze bugie, raccontando di come fosse un laboratorio proibito, perché i sovietici avevano vietato ogni forma di proprietà privata, ma non che dentro ci fosse una tipografia. Quel segreto fu mantenuto fino al 1990. La AB divenne finalmente una casa editrice legale. Durò poco: battuta dalle nuove tecniche di stampa e distribuzione non resse la concorrenza che per pochi anni ancora. “Ma il vero miracolo è che per dieci anni non ci abbiano scoperti”.
La resistenza fu anche armata, comunque. I lituani combatterono contro i sovietici dal 1944 al 1953, più di ogni altro movimento di resistenza europeo del Novecento. L'ultimo partigiano si arrese solo nel 1965. Siamo andati a Minaiciai, nel Nord della Lituania, in mezzo a boschi e campagne, nel luogo in cui venne istituito un comando unificato delle unità partigiane. Dall'esterno non si nota nulla, solo una vecchia cascina. Sotto la cascina, però, c'era il bunker di comando, capace di ospitare fino a sei uomini (dieci in caso di emergenza o riunioni al vertice). La guerriglia lituana fu ben lontana da quegli episodi di barbarie a cui la storia recente ci ha abituati, con guerriglieri in abiti civili che si mischiano alla popolazione e compiono attentati. I lituani, al contrario, conservarono sempre le loro uniformi, combatterono come esercito regolare, al servizio di uno Stato che non si era arreso all'occupazione sovietica. Fu una guerra di un esercito regolare, combattuta in condizioni disperate, recuperando armi e munizioni lasciate dai tedeschi, o catturando quelle dei sovietici. Dal 1949, constatando che nessun aiuto sarebbe giunto dall'esterno, la resistenza iniziò a perdere colpi. In quell'anno i sovietici condussero la più massiccia retata e deportazione di contadini e proprietari terrieri, azzerando di colpo la base di collaboratori dei partigiani. Il bunker che visitiamo non venne mai trovato. Fu semplicemente abbandonato nel 1952. Solo una volta, nel 1947, si combatté nei pressi di Minaiciai: a circa cinque km dal bunker di comando. Fu una grande fortuna. In caso di arrivo dei sovietici, i rifugi della resistenza non avevano alcuna via di fuga e i partigiani optavano per il suicidio, molto spesso. La maggioranza assoluta di loro erano cattolici. Lo possiamo vedere anche nella piccola esposizione di Minaiciai: piccoli libri di preghiera, edizioni tascabili del Vangelo, foto di messe celebrate nelle foreste, giuramenti alla presenza dei sacerdoti. Ma il suicidio era comunque praticato, come ci spiega una anziana sopravvissuta che ci guida sul luogo della memoria: era considerato un modo per salvare altre vite, perché chi veniva fatto prigioniero, una volta torturato dai sovietici, avrebbe parlato e messo a rischio la sopravvivenza di tanti altri compagni di lotta.
La resistenza fu anche e soprattutto spirituale. Il suo luogo simbolo è la Collina delle Croci, visitato anche da San Giovanni Paolo II nel suo viaggio apostolico del 1993. La collina di Siauliai, interamente ricoperta di crocefissi di tutte le dimensioni, portati da pellegrini e visitatori di ogni angolo del pianeta, venne rasa al suolo dai sovietici per ben tre volte. Ogni volta che i bulldozer spianavano le croci, queste ricomparivano. Il Kgb appostò osservatori fissi, per prendere nota di chiunque si avventurasse in quei paraggi. Chiunque piantasse un crocefisso veniva schedato, se era un insegnante o un giornalista, o chiunque avesse un ruolo di formazione, veniva arrestato. Nonostante tutto le croci restarono e il loro numero crebbe, fino alla liberazione. Oggi, uno dei crocefissi piantati più recentemente viene dal Libano, con una scritta in arabo: un pensiero dai nuovi perseguitati. Anch'essi, oggi, come i lituani di un tempo, resistono nella loro fede senza ricevere alcun aiuto da un mondo esterno che li ignora.