L’Italia, «il bel paese» di «dolore ostello»
Dante e Petrarca presentano due prospettive molto differenti nei confronti della politica. Ma una lettura attenta del Canzoniere ci permette di rilevare che in mezzo a tante differenze tra i due autori vi siano innumerevoli consonanze, soprattutto riguardo al giudizio sulla cattiva condizione in cui versa il nostro Paese.
Nell’immaginario collettivo e nel giudizio prevalente che domina lo scenario critico sui due grandi padri della letteratura italiana, Dante e Petrarca presentano due prospettive molto differenti nei confronti della politica: all’intraprendenza pratica e alla vis polemica dei versi del primo si contrapporrebbero il disinteresse e il ripiegamento compiaciuto su di sé del secondo, refrattario ad assumersi responsabilità pubbliche e tutto incline all’autoauscultazione del proprio animo.
Una lettura attenta del Canzoniere ci permette di rilevare che in mezzo a tante differenze tra i due autori vi siano innumerevoli consonanze, soprattutto riguardo al giudizio sulla cattiva condizione in cui versa il nostro Paese, un Paese la cui peculiarità risiede nell’universalità, che (come scrisse Dostoevskij nel lontano 1877)
porta con sé da duemila anni un’idea di grandezza, reale, organica: l’idea di una idea generale dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei papi. Il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa non lo intuisce. L’arte e la scienza italiana sono piene di quella idea grande.
L’Italia poi, a detta di Solov’ev, fu anche la prima che raggiunse un’autocoscienza nazionale attraverso la grandezza delle opere d’arte improntate al vero e al bello:
I creatori dell’autentica grandezza dell’Italia erano senza dubbio veri patrioti e conferivano un valore altissimo alla propria patria[…]. Essi non ritenevano conforme a verità e bellezza affermare se stessi e la propria nazionalità, ma si affermavano direttamente nel vero e nel bello. […] Le opere d’arte italiane glorificavano l’Italia perché sono pregevoli in se stesse, pregevoli per tutti.
Erede dello spirito della classicità greco-romana e, al contempo, della grande tradizione cristiana, l’Italia divenne nei secoli sempre più creativa nell’arte, nella letteratura, nelle opere sociali e caritative. Dante manifesta talvolta i suoi entusiasmi nei confronti della sua terra, «il bel paese dove il sì suona», il bel giardino d’Europa.
Altre volte con tono polemico, da uomo che ama il proprio Paese, ma è addolorato per quanto vi si verifica, si scaglia con parole di violenza inaudita:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Siamo nel canto VI del Purgatorio. A Dante l’Italia non si presenta come una donna raffinata, ma addirittura come luogo di prostituzione, ricettacolo di sofferenza e di dolore. Non c’è città medioevale d’Italia, prosegue nei versi successivi Dante, che non sia lacerata dalle guerre. Manca un’autorità che sia riferimento a tutti i comuni e all’intera popolazione.
L’immagine dell’«albergo di dolore» ricompare nel Canzoniere del Petrarca, nel sonetto CXIII che tanto influenzerà la cultura successiva anche nelle immagini e nelle espressioni relative alla «cattività babilonese»:
De l’empia Babilonia, ond’è fuggita
ogni vergogna, ond’ogni bene è fori,
albergo di dolor, madre d’errori,
son fuggito io per allungar la vita.
Qui mi sto solo; et come Amor m’invita,
or rime et versi, or colgo herbette et fiori,
seco parlando, et a tempi migliori
sempre pensando: et questo sol m’aita.
Né del vulgo mi cal, né di Fortuna,
né di me molto, né di cosa vile,
né dentro sento né di fuor gran caldo.
Sol due persone cheggio; et vorrei l’una
col cor ver’ me pacificato humile,
l’altro col pie’, sí come mai fu, saldo.
Divenuta sede della Curia papale dal 1309 al 1377, Avignone è definita «albergo di dolor». Petrarca vi ricopre alcuni compiti presso la Curia, ma col tempo si distacca gradualmente da quel mondo promuovendo il ritorno del papato a Roma. Ricettacolo di vizi, Avignone diviene nei versi di Petrarca simbolo dell’espiazione che deve attuare la chiesa in un esilio lontano dalla patria, nuova Babilonia. Come il popolo ebraico è stato deportato dal sovrano babilonese Nabucodonosor, allo stesso modo la Curia romana è stata trasferita ad Avignone per scontare i propri peccati. Nell’epoca del Petrarca Santa Caterina da Siena (1347-1380), patrona d’Italia e d’Europa, si batte per il ritorno della sede del papato a Roma. Avignone è la Babilonia contemporanea. L’esilio del papato nella città francese è così una nuova «cattività» ovvero prigionia, non più babilonese, ma avignonese.
Nel Canzoniere Petrarca inserisce la trilogia dei sonetti babilonesi (il CXXXVI, il CXXXVII e il CXXXVIII) in cui auspica la discesa delle fiamme dal Cielo che possano distruggere una città che è divenuta sede di tradimenti e di peccato. Avignone è un inferno di vivi. La povertà evangelica delle origini è perduta. La Chiesa ha dimenticato il suo fondamento e si è prostituita al potere e alle ricchezze. Petrarca non assisterà da vivo al ritorno del papato a Roma. Ma pochi anni dopo la sua morte, nel 1377, il suo desiderio si compirà.
Questi versi mostrano un Petrarca che partecipa attivamente ai dibattiti politici contemporanei, un Petrarca che nella canzone Italia mia, benchè ‘l mio parlar sia indarno (Rerum vulgarium fragmenta CXXVIII), vedendo le «piaghe mortali» dell’Italia, chiede al «Rettore del cielo» di volgersi al suo «dilecto almo paese». Il poeta biasima le continue guerre intestine combattute nel nostro Paese, l’uso continuo di milizie mercenarie, l’incapacità da parte dei signori d’Italia di allearsi per il bene comune in modo da realizzare una realtà statale più ampia e scacciare finalmente i barbari, quegli stranieri provenienti d’Oltralpe, ben distanti dall’antica virtù romana.
La fama e la gloria degli antichi Romanisono svanite da tempo per lasciare spazio alle divisioni interne al Paese. Petrarca esorta allora i signori italiani a dissipare ogni rivalità e a guardare «con pietà […]/ le lagrime del popolo doloroso». Così, finalmente
vertù contro furore
prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto;
ché l’antiquo
valore
ne l’italici cor’ non è anchor morto.
La responsabilità dei potenti italiani è morale: i contrasti e le invidie sono sentimenti contrari «a la vita serena»; che il loro impegno sia rivolto ad atti degni di lode così che «la strada del ciel si trova aperta». Petrarca auspica la fine dei contrasti e infine «pace, pace, pace».