L'Islanda si allontana da Bruxelles
Ha vinto la destra euro-cinica dopo quattro anni di governo di sinistra. La prima presidente lesbica non è riuscita nell'intento di dar continuità al suo governo. Più delle "unioni gay", al popolo morde la fame.
L’Islanda come termometro politico per calcolare l’affiliamento degli Stati all’Europa? Forse è un’ipotesi azzardata. È anche vero però che i nodi stanno venendo al pettine e l’Islanda ha da sempre avuto un rapporto non idilliaco con l’Unione europea. Ma andiamo con ordine.
Dopo quattro anni di governo di sinistra, guidato ai massimi livelli dal presidente Johanna Sigurðardóttir, domenica le elezioni hanno sancito la netta vittoria dell’opposizione. Il Partito dell’Indipendenza, guidato da Bjarni Benediktsson, di centro destra, aveva una poche parole d’ordine durante le elezioni: abbassare le tasse, allontanare l’austerità, evitare le ingerenze dell’Unione. L’alta affluenza alle urne (83 per cento) ha delineato i contorni di una vittoria netta e voluta da buona parte dei 320 mila abitanti dell’isola artica: ha vinto il Partito dell’Indipendenza con il 27 per cento di voti. In seconda posizione il Partito del Progresso – alleato con Benediktsson – ha raccolto il 24 per cento e 19 seggi in Parlamento. Parlamento da spartire con l’alleanza socialdemocratici–verdi (con il 23, 8 per cento dei voti insieme) e con l’astro nascente del Partito dei Pirati, un movimento –nato in Svezia nel 2009 – che propugna la libertà del web e che raggranella il 5,1 per cento delle schedine.
Pur con un Pil in salita e una disoccupazione in netto calo (oggi naviga vicino al 6 per cento della popolazione totale), che avrebbe dovuto garantire la vittoria della sinistra già al potere, non stupiscono i risultati delle urne. L’indebitamento delle famiglie è il primo fattore d’insofferenza: una su dieci è in ritardo sul pagamento dei mutui. L’economia isolana, però, regge nonostante la crisi – che colpì l’Islanda nel 2008 – e la scoperta di giacimenti petroliferi nelle profondità oceaniche prossime alle coste ha permesso, a livello energetico, di poter esportare i preziosi carburanti e di sostenersi mediante le centrali geotermiche.
Altro fattore di distanza da Bruxelles riguarda la pesca del merluzzo e degli sgombri. Già a dicembre l’Europa aveva sanzionato l’Islanda e le isole Far Oer a causa delle richieste di Oslo ed Edimburgo che lamentavano l’eccessiva presenza islandese nell’Oceano. L’economia islandese forma il 40 per cento del suo export con il pescato ed è l'unica, insieme a Norvegia e Giappone, che continua a cacciare le balene. L’Islanda, per tutta risposta, additava la controparte, e il tutto si concluse in una lunga serie di accuse vicendevoli e un nulla di fatto.
I rapporti con l’Europa si sono raffreddati già quattro anni fa. Le tre grandi banche islandesi, che dominavano il settore finanziario, avevano gonfiato artificialmente il valore delle proprie azioni comprandosele a vicenda, raggiungendo un patrimonio pari a 8 volte il Pil della nazione e celando il tutto sotto il tappeto, dietro aziende fittizie stanziate in paradisi fiscali. Le stesse banche avevano creato conti online ad alto rendimento – gli Icesave – pubblicizzati a inglesi e olandesi, che avevano così acquistato parte del patrimonio non reale degli istituti bancari. Quando il Fmi chiese al governo islandese un resoconto dell’azione delle sue banche, l’esecutivo locale si trovò in braghe di tela e fu costretto a chiedere un prestito di circa 5 miliardi alla Bce per sanare la situazione. Ma era tardi per fermare la sfiducia del mercato internazionale: il valore delle azioni e degli immobili precipitarono e le banche fallirono.
Fu soltanto l’azione della leader Sigurðardóttir a salvare la situazione, nazionalizzando le tre banche e indicendo un referendum sul pagamento dei debiti contratti con i paesi stranieri. Il risultato: con il 93 per cento dei consensi, l’Islanda decise di non pagare nulla. L’Islanda ha svalutato la corona – sua moneta locale – di oltre il 40 per cento e fatto ripartire le esportazioni di pescato, alluminio, energia. Il crollo della corona ha però spinto in alto i prezzi mentre i salari reali e le quotazioni degli immobili cadevano e le tasse aumentavano vertiginosamente, dovute soprattutto al necessario rimborso degli aiuti dell'Fmi. Gli islandesi, con un potere d'acquisto calato del 30-40 per cento, dovettero affrontare mutui per una decina di miliardi di euro, aumentando così il rischio d’insolvenze. Si additò l’Europa come colpevole di questa condizione, e il risultato delle elezioni ne è diretta conseguenza.