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REPUBBLICA ISLAMICA

L'Iran a soli 12 giorni dalla prima atomica

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L’Iran può produrre uranio arricchito a sufficienza per costruire la sua prima bomba atomica in appena 12 giorni. E può produrre la sua prima bomba atomica in alcuni mesi. A dichiararlo è stato il capo degli Stati Maggiori Riuniti degli Usa, il generale Mark Milley. Dopo vent'anni di crisi e negoziati questi sono i risultati. Ed ora? 

Esteri 25_03_2023
Impianti nucleari iraniani, in esposizione

L’Iran può produrre uranio arricchito a sufficienza per costruire la sua prima bomba atomica in appena 12 giorni. E può produrre la sua prima bomba atomica in alcuni mesi. A dichiararlo è stato il capo degli Stati Maggiori Riuniti degli Usa, il generale Mark Milley. È una doccia gelata per chi finora credeva che lo sviluppo del programma nucleare iraniano fosse ancora arretrato. Ed è un segnale di allarme per tutto il Medio Oriente.

Prima di tutto, è meglio sgombrare il campo da ogni equivoco. Questa stima è, appunto, una stima di intelligence. Non è detto che sia vera. Secondo: la capacità di produrre non è, necessariamente, la volontà di produrre. La stima misura la capacità industriale di arricchire l'uranio al grado necessario per confezionare un’arma nucleare. Ciò vuol dire che, se oggi l’ayatollah Alì Khamenei, lo autorizzasse, gli impianti nucleari iraniani potrebbero consegnare tutto il materiale fissile necessario fra due settimane o anche meno. Poi occorrerebbero altri mesi per usare quel materiale per la produzione di un’arma nucleare. Sempre che non la costruiscano prima. Però è uno scenario inquietante, in ogni caso. E dimostra come la potenzialità industriale nucleare iraniana, nel corso degli anni, sia enormemente cresciuta.

La crisi nucleare iraniana dura da due decenni. Da quando, nell’agosto del 2002, dissidenti iraniani dei Mujaheddin del Popolo denunciarono (e poi l’intelligence americana confermò) l’esistenza di impianti segreti per la produzione di uranio arricchito ad Arak e Natanz. L’Iran si giustificò affermando che si trattava solo di un programma nucleare civile. Di lì in avanti iniziò un braccio di ferro fra il regime di Teheran e la comunità internazionale, con un alternarsi di sanzioni e distensioni. Fu raggiunto un accordo, che pareva definitivo, nel 2015, a Vienna, per volontà dell’Ue e del presidente Obama. Sulla base dell’accordo l’Iran doveva garantire che il suo programma nucleare fosse solo civile, limitando la sua capacità produttiva, la quantità e la qualità (grado di arricchimento) delle sue scorte di uranio.

L’accordo durò solo tre anni, poi, nel 2018, in Israele il governo Netanyahu affermò che l’Iran stava mentendo. Per provarlo, mostrò in pubblico una massa impressionante di documenti trafugati in Iran dai suoi servizi segreti. Gli iraniani continuano ad affermare che siano falsi, ma gli Usa lo giudicarono materiale attendibile e l’amministrazione Trump (che già non mostrava entusiasmo per gli accordi di Vienna) si ritirò dagli accordi.

La tensione tornò più forte di prima. Gli Usa ripristinarono le sanzioni economiche e nel 2019 provocarono una grave crisi interna all’Iran, a sua volta causa della rivolta sul caro-carburanti, repressa in un bagno di sangue. A gennaio 2020, in risposta ad un attacco contro un presidio statunitense, gli americani uccisero in Iraq, con un raid di droni, il generale iraniano Qasem Soleimani. Lo scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh venne assassinato in Iran nel novembre 2020 con un’arma avveniristica: una mitragliatrice automatica controllata in remoto via satellite. L’Iran ne attribuisce la responsabilità a Israele, che tuttora nega.

Nel 2018, quando è ripresa la crisi nucleare, la Repubblica Islamica aveva la capacità di produrre uranio arricchito per una testata nucleare in circa un anno, secondo le stime dell’intelligence americana. Oggi questo tempo si sarebbe ridotto a 12 giorni. Fermo restando che stime sono e restano, c’è stato evidentemente un bel salto di qualità. Per questo le cancellerie europee (che non hanno mai digerito il ritiro degli Usa dagli accordi di Vienna) e lo stesso Partito Democratico hanno buon gioco a denunciare il comportamento dell’amministrazione Trump. Ma sarebbe cambiato qualcosa, se fossero rimasti negli accordi? L’Iran stava realmente rispettando gli accordi e tutti i documenti che provano il contrario sono falsi?

Sul passato è ormai inutile discutere. Sul futuro, piuttosto, è difficile capire come si possa “tornare al tavolo” di Vienna e rifare un accordo, dal momento che l’Iran è già riuscito ad avere quel che gli si voleva negare. Le conseguenze di un eventuale primo test nucleare iraniano sono abbastanza facili da prevedere: ci sarà una corsa agli armamenti fra Iran e Paesi arabi del Golfo che, più ancora che Israele, temono l’espansionismo di Teheran. Quanto a Israele, ci sarà, più che mai, la concreta possibilità che lanci un attacco preventivo: prima che l’Iran si doti di armi nucleari, con o senza l’appoggio degli Stati Uniti. È molto più difficile che si crei un “equilibrio del terrore” fra Iran e Israele in grado di portare la pace nel Medio Oriente, come pensa qualche ottimista e anziano studioso di Relazioni Internazionali.