L’invettiva contro Avignone e la corruzione della Chiesa
Petrarca ricopre alcuni compiti presso la Curia di Avignone, ma presto si distacca da quel mondo e promuove il ritorno della Curia a Roma. La città francese, descritta come un ricettacolo di vizi, diviene per Petrarca simbolo dell’espiazione che deve attuare la Chiesa in un esilio lontano dalla patria, nuova Babilonia.
Nel Canzoniere cambiano i luoghi di ambientazione dei componimenti. Anche se è giusto sottolineare che la raccolta non deve essere letta come diario, ovvero come resoconto realistico della vita del Petrarca, è pur vero che all’interno dei versi è possibile rintracciare le città e i paesaggi cari al poeta, che si mosse più volte dall’Italia alla Provenza, da Avignone a Valchiusa.
Nel Canzoniere, Valchiusa rappresenta il luogo della serenità e della tranquillità. Petrarca vi ha acquistato una casa nel 1337 e ogni tanto vi soggiorna. Nel componimento CXIII Petrarca si rivolge a uno dei suoi più intimi amici, Sennuccio del Bene (1275-1349), bandito da Firenze nel 1302 ed esiliato definitivamente dopo aver partecipato all’assedio della città natale militando nell’esercito dell’Imperatore Arrigo VII. Dal 1313 Sennuccio è ad Avignone al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Per questo conosce Petrarca. Tolto il bando da Firenze, può di nuovo ritornarvi, anche se sceglierà poi come sua città Avignone.
Rivolgendosi a Sennuccio del Bene, Petrarca scrive: «Qui dove mezzo son, Sennuccio mio,/ (cosí ci foss’io intero, et voi contento),/ venni fuggendo la tempesta e ’l vento/ c’ànno súbito fatto il tempo rio.// Qui son securo: et vo’ vi dir perch’io/ non come soglio il folgorar pavento,/ et perché mitigato, nonché spento,/ né-micha trovo il mio ardente desio.// Tosto che giunto a l’amorosa reggia/ vidi onde nacque l’aura dolce et pura/ ch’acqueta l’aere, et mette i tuoni in bando,// Amor ne l’alma, ov’ella signoreggia,/ raccese ’l foco, et spense la paura:/ che farrei dunque gli occhi suoi guardando?». Il poeta dichiara all’amico di essersi recato in Valchiusa per fuggire dalla tempesta amorosa. In quei luoghi Petrarca si sente sicuro e tranquillo, perché lì nasce «l’aura dolce et pura/ ch’acqueta l’aere». Come già altre volte, il poeta allude alla donna amata attraverso il señhal “l’aura”. Il fuoco d’amore si è riacceso, la paura è scemata, Amore è ora signore del cuore del poeta.
Alle poesie ambientate in Valchiusa si contrappongono quelle relative alla città di Avignone, divenuta sede della Curia papale dal 1309 al 1377. Santa Caterina da Siena (1347-1380), patrona d’Italia e d’Europa, vive nell’epoca di Petrarca e si batte per il ritorno della sede del papato a Roma. Petrarca, che ricopre alcuni compiti presso la Curia di Avignone, si distacca gradualmente da quel mondo e promuove il ritorno della Curia a Roma. La città francese, descritta come un ricettacolo di vizi, diviene nei versi di Petrarca simbolo dell’espiazione che deve attuare la chiesa in un esilio lontano dalla patria, nuova Babilonia. Come gli ebrei sono stati deportati dal sovrano babilonese Nabucodonosor, allo stesso modo la Curia romana è stata trasferita ad Avignone per scontare i propri peccati.
È proprio Petrarca a creare il parallelo tra Avignone e Babilonia nel sonetto CXIV De l’empia Babilonia, ond’è fuggita. Se Babilonia era stata nell’antichità sinonimo di vizio e di iniquità, Avignone è la Babilonia contemporanea. L’esilio del papato nella città francese è così una nuova “cattività” ovvero prigionia, non più babilonese, ma avignonese. Avignone è definita «albergo di dolor», chiara allusione all’invettiva di Dante contro l’Italia del canto VI del Purgatorio: «Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!». Per Dante l’Italia non si presenta come una donna raffinata, ma addirittura come luogo di prostituzione, ricettacolo di sofferenza e di dolore. Non c’è città medioevale d’Italia (icasticamente rappresentata dalle mura e del fossato) che non sia lacerata dalle guerre. La nostra terra è poi rappresentata con un cavallo dalla sella vuota, senza cavaliere. Non c’è più autorità che sia riferimento comune a tutti i comuni e all’intera popolazione. Petrarca sostiene di essere fuggito dalla Babilonia contemporanea «per allungar la vita».
Leggiamo allora per intero il sonetto CXIII che tanto influenzerà la cultura successiva anche nelle immagini e nelle espressioni relative alla «cattività babilonese»: «De l’empia Babilonia, ond’è fuggita/ ogni vergogna, ond’ogni bene è fori,/ albergo di dolor, madre d’errori,/ son fuggito io per allungar la vita.// Qui mi sto solo; et come Amor m’invita,/ or rime et versi, or colgo herbette et fiori,/ seco parlando, et a tempi migliori/ sempre pensando: et questo sol m’aita.// Né del vulgo mi cal, né di Fortuna,/ né di me molto, né di cosa vile,/ né dentro sento né di fuor gran caldo.// Sol due persone cheggio; et vorrei l’una/ col cor ver’ me pacificato humile,/ l’altro col pie’, sí come mai fu, saldo».
Più avanti, nel Canzoniere troviamo la trilogia dei sonetti babilonesi che comprende il CXXXVI, il CXXXVII e il CXXXVIII. Nel CXXXVI Petrarca scrive: «Fiamma dal ciel su le tue treccie piova,/ malvagia, che dal fiume et da le ghiande/ per l’altrui impoverir se’ ricca et grande,/ poi che di mal oprar tanto ti giova;// nido di tradimenti, in cui si cova/ quanto mal per lo mondo oggi si spande,/ de vin serva, di lecti et di vivande,/ in cui Luxuria fa l’ultima prova.// Per le camere tue fanciulle et vecchi/ vanno trescando, et Belzebu in mezzo/ co’ mantici et col foco et co li specchi.// Già non fostú nudrita in piume al rezzo,/ ma nuda al vento, et scalza fra gli stecchi:/ or vivi sí ch’a Dio ne venga il lezzo». Nell’invettiva Petrarca auspica la discesa delle fiamme dal Cielo che possano distruggere una città che è divenuta sede di tradimenti e di peccato.
Nel sonetto successivo, il CXXXVII, leggiamo: «L’avara Babilonia à colmo il sacco/ d’ira di Dio, e di vitii empii et rei,/ tanto che scoppia, ed à fatti suoi dèi/ non Giove et Palla, ma Venere et Bacco.// Aspectando ragion mi struggo et fiacco;/ ma pur novo soldan veggio per lei,/ lo qual farà, non già quand’io vorrei,/ sol una sede, et quella fia in Baldacco.// Gl’idoli suoi sarranno in terra sparsi,/ et le torre superbe, al ciel nemiche,/ e i suoi torrer’ di for come dentro arsi.// Anime belle et di virtute amiche/ terranno il mondo; et poi vedrem lui farsi/ aurëo tutto, et pien de l’opre antiche».
Nel CXXXVIII i toni del Petrarca diventano ancora più aspri: «Fontana di dolore, albergo d’ira,/ scola d’errori, et templo d’eresia,/ già Roma, or Babilonia falsa et ria,/ per cui tanto si piange et si sospira;// fucina d’inganni, o pregion dira,/ ove ’l ben more, e ’l mal si nutre et cria,/ di vivi inferno, un gran miracol fia/ se Cristo teco alfine non s’adira.// Fondata in casta et humil povertate,/ contra’ tuoi fondatori alzi le corna,/ putta sfacciata: et dove ài posto spene?// Ne gli adúlteri tuoi? ne le mal nate/ richezze tante? Or Constantin non torna;/ ma tolga il mondo tristo che ’l sostene».
Avignone è un inferno di vivi. La povertà evangelica delle origini è perduta. La Chiesa ha dimenticato il suo fondamento e si è prostituita al potere e alle ricchezze. Petrarca non assisterà da vivo al ritorno del papato a Roma. Ma pochi anni dopo la sua morte, nel 1377, il suo desiderio si compirà.