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USA

L'insostenibile fragilità del candidato Joe Biden

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Immaginate di lavorare per la campagna elettorale di Joe Biden: università in subbuglio, Medio Oriente fuori controllo, Houthi rafforzati. India e Giappone offesi gratuitamente

Esteri 04_05_2024
Joe Biden (La Presse)

Immaginate di lavorare per la campagna elettorale di Joe Biden, a soli sei mesi dalle elezioni più importanti per gli Usa. Dovreste sostenere un presidente la cui popolarità è in caduta libera in patria e la cui credibilità è molto ridotta all’estero, anche fra gli alleati. Ma invece di seguire i consigli dei migliori esperti a disposizione, il vostro cliente continua a tacere quando dovrebbe parlare, parlare quando dovrebbe tacere e dire le cose sbagliate alle persone sbagliate.

La popolarità in patria, prima di tutto, è arrivata ai minimi storici. Solo il 38% degli americani approva l'operato di Biden, rispetto al 46% degli ex presidenti Trump, al 48% di Barack Obama e al 52% di George W. Bush a questo punto delle loro campagne di rielezione, secondo i sondaggi Gallup.

La contestazione dei filo-palestinesi nelle università sta dividendo il partito, provocando indignazione negli elettori più moderati e diffondendo un generale senso di profonda sfiducia nelle istituzioni da parte dell’opinione pubblica. I genitori degli studenti delle migliori (e più care) università americane, in particolare, chiedono lauti risarcimenti. A prescindere dalle idee che hanno sulle manifestazioni per Gaza, la sensazione generale è che i loro figli, per cui pagano fino a 80-90mila dollari all’anno di retta, non siano sufficientemente protetti e tutelati e stiano perdendo un anno di lezioni.

Di fronte a un problema diffuso su scala nazionale, con oltre 2mila manifestanti arrestati complessivamente nell’ultima settimana, Biden è rimasto troppo a lungo in silenzio. Ha scelto di tacere, quando avrebbe dovuto parlare subito. Alla Columbia University, epicentro della contestazione, ha fatto in tempo ad arrivare prima Mike Johnson, presidente repubblicano della Camera, che ha tenuto un discorso in difesa dell’ordine e degli studenti ebrei perseguitati dai manifestanti pro-Palestina. La portavoce della Casa Bianca è intervenuta solo il 30 aprile, Biden due giorni dopo, con un discorso in cui stigmatizza i disordini. «Il dissenso è fondamentale per la democrazia – ha dichiarato il presidente – Ma il dissenso non deve mai portare al disordine».

Questa lentezza e scarsa decisione si può spiegare, secondo un’analisi del Wall Street Journal, solo con un errore di valutazione dell’amministrazione sull’ampiezza della contestazione. È dovuto alla convinzione dei funzionari della Casa Bianca e della campagna elettorale che gli studenti che partecipano o sono colpiti dalle proteste siano comunque solo una piccola minoranza. I consiglieri di Biden e alcuni strateghi di entrambi i partiti citano dati che mostrano come il conflitto a Gaza non sia una priorità assoluta per i giovani elettori in generale. Alcuni consiglieri di Biden sperano in privato che le proteste nei campus siano temporanee e che svaniscano con la pausa estiva delle scuole, pur riconoscendo che le manifestazioni pro-palestinesi continueranno altrove.

La crisi interna, comunque, è solo un piccolo riflesso della crisi all’estero. Nel conflitto mediorientale, gli Usa hanno dimostrato un’ottima capacità di reazione alla minaccia iraniana. Quando Teheran annunciava la sua intenzione di colpire Israele, gli Usa hanno messo in piedi un’alleanza di Stati arabi in tempi record che ha aiutato Israele a respingere l’attacco di missili e droni nella notte fra il 13 e il 14 aprile. Ma l’amministrazione non è stata in grado di fermare il conflitto a Gaza. E neppure dà l’impressione di seguire una politica coerente. Se, infatti, nei primi mesi di guerra l’atteggiamento era quello del sostegno a Israele senza tentennamenti, col nuovo anno Biden si è presentato nella veste di mediatore. Ma non ha ottenuto alcuna liberazione degli ostaggi. E neppure l’ultima proposta di tregua è stata accettata da Hamas, che ha tutto da guadagnare dalla prosecuzione del conflitto, sia che vinca, sia (in ottica di “martirio”) che perda. Il 3 maggio (ieri, per chi legge), il governo Netanyahu ha posto un ultimatum: o Hamas accetta la proposta di tregua, o verrà lanciata la tanto annunciata offensiva su Rafah, ultima roccaforte del gruppo terrorista. In pratica, la situazione appare del tutto fuori dal controllo degli Usa, che pure possono esercitare una forte influenza sia su Israele, sia sul Qatar, il protettore ufficiale di Hamas.

Il ruolo di mediatore, le continue pressioni su Israele, la minaccia di tagliare gli aiuti, le sanzioni proposte per alcune unità militari israeliane, per di più, rischiano di alienare buona parte dell’opinione pubblica moderata americana. Se Biden punta a non perdere i voti della minoranza musulmana e dell’estrema sinistra democratica, deve però fare i conti con un 72% di americani che, a domanda precisa, risponde che Israele dovrebbe entrare a Rafah e proseguire la guerra fino alla sconfitta di Hamas.

E non è solo a Gaza che gli Usa proiettano un’immagine di insicurezza. La crisi rischia infatti di aggravarsi anche nel secondo fronte mediorientale: il Mar Rosso. Gli Houthi, il movimento ribelle allineato all’Iran che controlla gran parte dello Yemen ha ampliato le infrastrutture militari sotterranee, secondo quanto emerge dalle ultime foto satellitari. Gli Houthi tentano, evidentemente, di aumentare la capacità di resistere ai bombardamenti britannici e statunitensi e, probabilmente, si stanno preparando all’allargamento del conflitto. La politica statunitense ed europea, sinora seguita, è consistita nel fornire la scorta armata alle navi mercantili che attraversano il Mar Rosso e attacchi limitati alle postazioni degli Houthi nello Yemen. Non solo gli Houthi non sono stati messi in condizione di non nuocere, ma addirittura si stanno rafforzando.

Un presidente indeciso, dunque, non rischia solo di perdere in prima persona, ma può indebolire la posizione degli Usa. Dove si mostra deciso è, paradossalmente, solo nella critica agli alleati. Una critica anche sferzante, come nel caso di uno dei suoi ultimi discorsi elettorali, tenuto mercoledì 1 maggio, di fronte a una audience di immigrati dall’Asia, in cui ha dichiarato: «Pensate a questo. Perché la Cina è in una fase di stallo economico così grave? Perché il Giappone ha problemi? Perché li ha la Russia? Perché li ha l’India? Perché sono xenofobi. Non vogliono immigrati». Russia e Cina sono antagonisti, quando non proprio nemici, degli Usa. Ma sia il Giappone che l’India sono i due principali alleati su cui Biden conta per rafforzare la presenza americana nell’Indo-Pacifico e contenere la Cina. Può essere anche vero che siano xenofobi, il Giappone è uno dei paesi più chiusi all’immigrazione. L’India pone sempre più restrizioni soprattutto agli immigrati musulmani. Ma perché insultare proprio loro, mettendoli nello stesso paniere di Russia e Cina? Perché proprio adesso? Sono domande a cui dovrà rispondere lo staff della Casa Bianca, come sempre sotto stress.