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MEDIA

L'informazione muore a Tolosa

Sul responsabile della strage nella scuola ebraica si sono riempiti per giorni i giornali dando per certo e vero quello che era soltanto verosimile.

Editoriali 23_03_2012
La polizia francese a Tolosa

La morte del “killer di Tolosa” braccato dalle forse speciali francesi ha costituito l’epilogo della caccia all’uomo che era scattata dopo la strage al liceo ebraico, ma non ha fatto calare il sipario sulla vicenda. E neppure sul modo in cui le testate informative ne hanno dato conto.

Come era già successo la scorsa estate in occasione della strage in Norvegia da parte di un pazzo e come accade spesso di fronte a notizie del genere, anche stavolta l’ipertrofia dell’informazione si è mostrata in tutta la sua distorsione. Le testate giornalistiche hanno dedicato alla vicenda spazi molto vasti, addirittura sproporzionati rispetto agli altri contenuti di attualità, ma soprattutto hanno spacciato per vere e verificate quelle che erano soltanto delle ipotesi, nemmeno fra le più verosimili.
Nell’attesa dell’epilogo – si poteva immaginare “come” sarebbe finita, ma bisognava aspettare il “quando” – le testate giornalistiche quotidiane hanno recuperato per ogni possibile ipotesi tutti i possibili contenuti più o meno connessi, dall’antisemitismo al neonazismo, dallo stragismo di destra al terrorismo di stampo qaedista, dalla pista del serial killer a quella del fanatico fuori controllo.

Stabilire una verità affidandosi alle ipotesi o alle dichiarazioni vaneggianti del diretto interessato non è certo facile, ma i giornalisti avrebbero il dovere di diffondere soltanto le notizie verificate e certe. Invece, la tendenza alla rappresentazione di ciò che o soltanto ipotetico e a volte non è neanche probabile è ormai radicata e consolidata.

Un esempio per tutti: alcune ore dopo la conclusione del blitz, i titoli delle prime pagine delle principali testate online non avevano ancora chiarito se Mohammed Merah fosse stato ucciso da un proiettile alla testa sparato dalle teste di cuoio oppure se si fosse gettato dalla finestra sparando. E molti altri particolari su come si sia svolta l’operazione di polizia che doveva portare alla cattura dell’uomo sono ancora tutti da verificare.

Nel caso di operazioni di polizia o interventi dei reparti specializzati contro pericolosi criminali, spesso i dettagli su come si sono svolti i fatti emergono soltanto dopo tanto tempo; a caldo, motivi di sicurezza e ragioni politiche possono indurre gli inquirenti e i diretti interessati a non divulgare informazioni sensibili. E questo fa parte del gioco. Ciò che, invece, appare una forzatura è la ridda di ricostruzioni, illazioni e supposizioni che puntualmente si scatenano intorno ai fatti e che vengono riferite dai media come se fossero comprovate certezze.

Questo tipo di racconto è tipico dei romanzi noir o dei thriller, non dovrebbe essere il vestito di una informazione che, in quanto tale, ha come compito specifico quello di raccontare la realtà e non di rappresentarla (nel senso più cinematografico-teatrale del termine), né – tanto meno – di immaginarla o ricrearla ad hoc secondo le aspettative del pubblico.

Informazione e comunicazione non sono sinonimi: ogni informazione viene comunicata, ma non tutte le comunicazioni contengono quelle che si possono definire propriamente informazioni. E sempre più spesso le testate, pur di non lasciare “spazi vuoti” nel flusso quotidiano di contenuti, cercano di colmare con la quantità quello che non riescono a fornire in termini di qualità. Ma l’accumulazione è cosa ben diversa dalla messa-in-forma che è comunque tra i compiti professionali dei giornalisti.

Nell’era di internet e dell’informazione in real time, la spinta alla messa in circolazione delle news nel più breve tempo possibile è un elemento strutturale della comunicazione e può allargare gli orizzonti di conoscenza dei cittadini. Ma la fretta di diffondere la notizia prima ancora che essa sia stata verificata genera un flusso informativo che sempre più spesso sembra quasi sfuggire alle mani dei giornalisti stessi. Se fino a qualche tempo fa la regola aurea della professione era prima verifica e poi informare, oggi in molte redazioni vige l’imperativo opposto: prima si mettono in circolazione le notizie – vere o presunte – e poi, se necessario, si farà in tempo a correggere il tiro per rettificarle.

Non è moralistico chiedere al sistema giornalistico d’assalto una sorta di esame di coscienza per non cedere a questa deriva, che per molti aspetti finisce per tradire quello che sarebbe il mandato sociale dell’informazione propriamente detta. Siamo così sicuri che il pubblico sia affetto da sindrome informativa al punto da richiedere la continua saturazione di tutti gli spazi di comunicazione disponibili a livello multimediale?