L'Inferno è l'individualismo contemporaneo
Tra gli eretici Dante incontra Farinata, che ha speso la vita per la passione politica, ma vive nella propria solitudine e nell'orgoglio. L'inferno è l'illusione della propria autonomia, presentata come aspirazione in epoca contemporanea.
Scriveva Bernanos nel Diario di un curato di campagna che l’Inferno è non amare più, non conservare più la capacità di amare. In altre parole potremmo anche dire che la condizione infernale è l’esperienza della propria assoluta autonomia, quella totale autonomia che, spesso, nell’epoca contemporanea è presentata come aspirazione cui tendere, la totale assenza di legami per cui noi viviamo come se gli altri non esistessero, incapaci di amare e di farci amare. L’Inferno in vita si sperimenta quando non si vive con una presenza di fronte agli occhi, ma nella propria solitudine ci si abbandona alle proprie passioni che diventano l’orizzonte ultimo di riferimento. L’idolo creato ben presto rivela la propria inconsistenza, il sogno tanto vagheggiato rapidamente dimostra la sua insufficienza a felicitarci. Già qui in vita possiamo sperimentare, come scrive s. Caterina da Genova, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Abbiamo, quindi, la prova della condizione delle anime dopo la morte nelle condizioni esistenziali che proviamo qui su questa Terra. Spesso, è sufficiente rivolgersi con contrizione e spavento per la nostra umana miseria a Colui che tutto può o alla nostra intercedente presso il Figlio (la Madonna) per fuoriuscire dalla percezione di angoscia infernale e sentire la necessità di un’espiazione e di un’ascesi.
Dante viator sperimenta sulla sua persona questa condizione umanissima di peccato e di risalita. In maniera geniale, Dante auctor raccontando il suo viaggio descrive situazioni in cui lui si abbassa alla condizione e all’atteggiamento dei dannati provando, così, una profonda amarezza. Dante sperimenta, cioè, l’Inferno in vita come tutti noi. Vediamo allora al notissimo episodio dell’incontro di Dante con Farinata degli Uberti nel canto decimo. Ci troviamo in mezzo alle tombe scoperchiate degli eretici (cerchio VI). Dante sta camminando tra le mura della città di Dite e le tombe e sta discorrendo con il maestro intorno al tema della discrezione alla quale Virgilio lo ha più volte richiamato. Proprio mentre la discussione ruota intorno all’importanza di usare poche e ponderate parole, interviene un personaggio che è tra i meno discreti di quanti si trovano all’Inferno e che così interpella il Fiorentino: «O Tosco che per la città del foco/ vivo ten vai così parlando onesto,/ piacciati di fermarti in questo loco./ La tua loquela ti fa manifesto/ di quella nobil patria natio,/ a la qual forse fui troppo molesto».
Statuario, imponente, con fiero aspetto tanto da aver «l’Inferno a gran dispitto», Farinata è stato uno degli artefici della vittoria dei ghibellini di Firenze alleati a Siena contro i guelfi fiorentini nella battaglia di Montaperti del 1260. Ha dedicato tutta la sua esistenza terrena alla passione politica, alla sua fazione, al suo partito. È definito nel canto VI come uno di coloro che «a ben far puoser li ‘ngegni», ma ciò non è sufficiente alla sua salvezza. La fama di essere epicureo, di considerare l’anima mortale fa sì che Dante lo ponga qui tra gli eretici. Ora, sentendo la «loquela» di Dante, capisce di aver di fronte un concittadino e la prima domanda che gli rivolge riguarda la sua famiglia, il partito di appartenenza. Quel «Chi fur li maggior tui?» non è una domanda interlocutoria di cortesia, ma è una richiesta di prendere posizione di fronte alle lotte cittadine, di schierarsi, di svelare apertamente la propria fede politica. Ecco perché quel «magnanimo» di Farinata, comprendendo di aver di fronte un avversario politico, inizia un vero agone. La tenzone, una sorta di partita o scontro o duello verbale, può essere divisa in due tempi, con un intervallo rappresentato dall’intervento in cui parla Cavalcante de’ Cavalcanti. Nel primo tempo Farinata afferma che gli antenati di Dante furono da lui cacciati per ben due volte. Ferito nell’orgoglio, Dante replica con una stoccata che va a segno portandolo in vantaggio nei confronti del rivale concittadino: i suoi parenti scacciati riuscirono, infatti, a rientrare, mentre i parenti di Farinata non «conobbero bene quell’arte».
Il duello, ormai aperto, è sospeso solo grazie all’intervento di Cavalcante de’ Cavalcanti, il vicino di tomba di Farinata, che con il primo sembrerebbe aver in comune solo la colpa di essere epicureo, ma con il quale è in realtà legato anche da un vincolo di parentela. Bice degli Uberti ha, infatti, sposato Guido Cavalcanti, figlio di Cavalcante. I due vicini di tomba sono, quindi, consuoceri. Cavalcante de’ Cavalcanti vive nella memoria del figlio, orgoglioso della intelligenza e dei meriti intellettuali che Guido seppe dimostrare in vita. Pacato, discreto, con una patina di velata malinconia chiede a Dante: «Se per questo cieco/ carcere vai per altezza d’ingegno,/ mio figlio ov’è? e perché non è teco?». Il padre è convinto che esistano solo meriti umani, non sospetta che Dante, amico del figlio, possa essere in viaggio nell’aldilà per grazia in nome di una missione voluta dal Cielo. Il figlio Guido dovrebbe avere anche lui la possibilità di vedere l’Oltremondo, se si valutano i meriti umani e l’altezza d’ingegno non inferiori (a suo avviso) a quelli di Dante. Questi, però, sottolinea che l’amico Guido non volle intraprendere la strada per raggiungere la verità, sprezzando la tradizione cristiana e la fede: «Colui ch’ attende là, per qui mi mena/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». Sentendo il verbo al passato («ebbe»), non ottenendo immediata risposta da Dante alla domanda se il figlio sia ancora in vita, Cavalcante sprofonda nella tomba, rattristato e ormai convinto che la dolce luce del sole non colpisca più gli occhi di Guido che, quindi, non vive più. Orbene, a questo punto, termina l’intervallo che ha la funzione da un lato di rallentare o di sospendere la tensione accumulatasi nel primo tempo della tenzone e dall’altro di mettere in luce la caratteristica precipua dei dannati, ovvero la loro totale incapacità di guardare il prossimo, di provare amore, compassione o simpatia.
Farinata degli Uberti vive nella propria solitudine e nell’orgoglio politico. Così, pur vedendo il dolore del consuocero generato dal fraintendimento delle parole di Dante, riprende la disputa esattamente là dove era stata sospesa. Inizia il secondo tempo. Farinata ha pronta una stoccata per pareggiare i conti con il concittadino: «Non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge,/ che tu saprai quanto quell’arte pesa». Anche Dante sarà esiliato, scoprirà «quanto è duro calle salire e scendere le scale altrui». Dante ha qui sperimentato, nel colloquio con Farinata, cosa significhi vivere con un cuore spietato, non spalancato all’altro, ha conosciuto l’abisso del male e del peccato, si è posto sullo stesso piano di Farinata. Ora i toni si smorzano, dopo che i due comprendono quanto ci si possa fare del male.
Farinata degli Uberti, Cavalcante de’ Cavalcanti e Dante viator sono più simili di quanto possa sembrare ad uno sguardo superficiale. I due consuoceri usano una ragione che non è spalancata sul Mistero e riescono a concepire soltanto la propria misura, l’uso di una intelligenza che è ridotta alla fiducia nelle proprie forze, nelle proprie convinzioni politiche, presumendo di poter conquistare una salvezza tutta umana. Ma «il valore di un uomo non dipende né da come nasce, né – come è portato a credere il consuocero – dall’altezza del suo ingegno. Non è quello il problema. Il problema è se qualcuno si prende cura di te o no, se si è fatto un incontro con qualcuno (Beatrice) che ha spalancato orizzonti razionali più ampi di quelli forniti dalla propria immaginazione o se si è rimasti schiavi delle proprie vedute […]. Farinata non capisce la situazione di Firenze per la stessa ragione per cui il suo compagno di tomba non riesce a capire come mai suo figlio non è qui e che è ancora vivo: ossia perché entrambi, dall’alto della loro presunzione, non nutrono dubbi circa la propria capacità di interpretare nell’unico modo che credono possibile, parole, fatti, atteggiamenti. […] Hanno mostrato di non intendere nulla: non vedono quello che si svolge sotto i loro occhi» (A. Brasioli).
Che somiglianza tra questi due personaggi, certo così differenti di carattere, e quel Dante che quando si trova nella selva oscura e vede il colle luminoso desidera uscire da solo dalle difficoltà con uno sforzo personale! Ora, dopo dieci canti, all’incirca dopo un giorno di cammino, Dante prende consapevolezza del suo cambiamento nel dire «Da me stesso non vegno:/ colui ch’attende là, per qui mi mena/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». Il cambiamento dell’uomo avviene non per uno sforzo, ma in seguito ad un incontro che cambia la vita.
Nell’ultima parte del secondo tempo la tenzone è, finalmente, caratterizzata da toni più morbidi. Dopo una captatio benevolentiae («Se tu mai nel dolce mondo regge»), Farinata chiede a Dante perché i fiorentini siano così spietati contro la sua famiglia. Dante risponde che le ragioni sono lo scempio che Farinata provocò a Montaperti. Il magnanimo ghibellino può, però, vantare il merito di aver da solo difeso la sua città, laddove tutti l’avrebbero voluta distruggere dopo la sconfitta. Allora Dante, dopo aver auspicato che gli Uberti possano finalmente trovare la pace e rientrare a Firenze, pone a sua volta una domanda al concittadino. Lasciamo a questo punto l’incontro tra i due fiorentini per constatare che il male, se abbracciato e accolto in noi, ha il potere di distruggere tutto quanto di bene c’è stato donato. Ecco perché la preghiera che Gesù ci ha insegnato si conclude con «non ci indurre in tentazione» che significa «fa’ in modo che noi possiamo stare lontani dalla tentazione».