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CONTINENTE NERO

L'infermiera modello, vittima della paura di ebola

Ebola ha ucciso di nuovo, a poco più di un anno dalla conclusione della sua peggiore epidemia: 11.315 i morti accertati. Ora ha fatto un'altra vittima, Salome Karwah, l'infermiera scelta da Time per la sua copertina, esempio di lotta all'ebola. Ora nessuno l'ha voluta curare per paura della malattia (di cui non era affetta).

Vita e bioetica 25_03_2017
Ebola, villaggio durante l'epidemia

Ebola ha ucciso di nuovo, a poco più di un anno dalla conclusione della peggiore epidemia per vastità di aree raggiunte, per durata e per numero di vittime da quando la malattia è stata scoperta: 11.315 i morti accertati, tre i paesi colpiti, Guinea Conakry, Sierra Leone e Liberia, oltre due anni di tribolazioni prima che, il 14 gennaio 2016, l’Oms potesse annunciare con certezza la fine dell’emergenza. 

La vittima è Salome Karwah, l’infermiera liberiana scelta nel 2014 dalla rivista Time come “personaggio dell’anno”: la sua fotografia in copertina, un tributo al coraggio e alla generosità con cui si stava prodigando nella cura dei malati. Salome aveva perso diversi parenti, inclusi i genitori, aveva contratto a sua volta la malattia, ne era guarita ed era subito tornata ad assistere gli ammalati di Ebola in un centro di emergenza allestito da Medici senza frontiere a Monrovia per dimostrare ai suoi connazionali che la malattia si poteva sconfiggere, che non bisognava averne paura. 

A ucciderla all’età di 28 anni, poche settimane fa, non è stato il virus, ma lo stigma sociale che, come si temeva, si è abbattutto sui sopravvissuti: chi come lei si è ammalato ed è guarito e, tuttavia, viene emarginato, scartato, persino da amici e parenti. Salome è morta dopo aver dato alla luce il suo quarto figlio. Si era reso necessario il taglio cesareo. Dopo l’intervento è stata dimessa in fretta, nonostante accusasse dei sintomi preoccupanti. Quattro giorni dopo il marito l’ha riportata in ospedale perchè aveva la febbre, stava male. Ma sono passate ore prima che il personale si decidesse a ricoverarla, troppo tardi. Le infermiere non la volevano neanche toccare per paura di essere infettate – ha raccontato il marito affranto – lui stesso è dovuto entrare in ospedale per procurarsi una sedia a rotelle, mentre la moglie aspettava in macchina. 

Salome era famosa, la notizia della sua morte ha fatto il giro del mondo. La direzione dell’ospedale ha detto di voler aprire un’indagine. Altri sopravvissuti sono nella sua stessa situazione: vessati, licenziati e senza nessuno che li assuma, condannati a vivere nella vergogna e nella solitudine, costretti a trasferirsi dall’ostilità dei vicini e degli stessi famigliari, sperando che nessuno li riconosca nel nuovo quartiere, nella nuova città. Qualcun altro, come è successo a lei, può vedersi negate cure e assistenza e, se persino tra il personale sanitario c’è chi si comporta in questo modo, si può immaginare la reazione della gente comune che non ha la minima idea di come si trasmettano le malattie e crede che a causarle siano il malocchio, gli stregoni. Ancora adesso i sopravvissuti di altre epidemie di Ebola vivono questa situazione, a distanza di tanti anni. I sopravvissuti a quella del 1995-1997 in Gabon raccontano che ancora c’è gente che quando li incontra cambia direzione. In Uganda, durante l’epidemia scoppiata nel nord nel 2000-2001, i vicini di casa sono arrivati a bruciare case e proprietà dei malati guariti.  

In Liberia, Sierra Leone e Guinea a fermare l’epidemia è stato l’intervento internazionale. I paesi colpiti non sarebbero stati in grado di far fronte alla crisi da soli. Sierra Leone e Liberia, in particolare, reduci da due tra le più lunghe e cruente guerre civili del continente, disponevano all’epoca di due medici la prima e un medico la seconda ogni 100.000 abitanti. Inoltre la gente, del tutto impreparata, ha reagito irrazionalmente, convinta che bastasse rivolgersi ai guaritori tradizionali, pensando che fossero gli “untori” a contaminare e a contagiare o addirittura i medici per attirare negli ospedali i malati ed espiantarne gli organi. 

Gli Stati Uniti con 2,3 miliardi di dollari, la Gran Bretagna con 364 milioni, la Germania con 165 milioni sono i paesi che hanno messo a disposizione più capitali. In tutto, alla fine del 2015, la comunità internazionale aveva sborsato più di 3,6 miliardi di dollari spesi in presidi medici, personale, attrezzature, per creare nuove unità di crisi, addestrare 24.665 operatori sanitari e attrezzare 24 laboratori per test diagnostici. Anche le imprese straniere hanno dato un contributo importante. La Firestone, ad esempio, ha subito allestito due centri medici di isolamento nelle proprie piantagioni di gomma e ha creato dei corridoi di sicurezza per proteggere i lavoratori e le loro famiglie. Altrettanto ha fatto ArcelorMittal, il colosso dell’acciaio che inoltre ha organizzato dei corsi per informare i propri dipendenti sulla malattia, sulle cause del contagio, sulle misure preventive da adottare e ha creato dei presidi medici con personale qualificato.

Celebrando la fine dell’emergenza, un anno fa, l’allora segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, aveva ammonito a mantenere alta la guardia: “nei prossimi anni dobbiamo aspettarci il ritorno dell'epidemia” aveva detto. La fine di Salome Karwah, l’atteggiamento nei confronti dei sopravvissuti fanno temere che, non solo Ebola prima o poi ricomparirà, ma che troverà di nuovo quasi tutti impreparati.