L'India si divide sulla pena di morte
I nazionalisti indù vogliono il pugno
di ferro, i musulmani protestano
e l'opinione pubblica è sempre meno favorevole alle esecuzioni capitali.
La bomba nascosta in una valigetta e collocata il mattino del 7 settembre davanti all’Alta Corte di Nuova Delhi ha mietuto 13 vite e lasciato sul terreno una cinquantina di feriti. Fra le vittime dell’esplosione, uccise agli sportelli dove si ritirano i lasciapassare per accedere all’edificio, vi sono stati un giovane stagista di uno studio legale, alcuni venditori ambulanti che si davano da fare per ottenere licenze commerciali e un pilota civile di lunga esperienza.
Pochi si sono però accorti che la vittima maggiore inflitta al Paese da quell’esplosione mortale è stata di tutt’altra natura. La bomba ha infatti virtualmente spento sul nascere il dibattito pubblico appena apertosi sulla pena di morte, che in India è legale.
Di fronte alla rivendicazione della paternità dell’attentato da parte di gruppi islamisti, i dibattiti televisivi susseguitisi numerosi fino a quel momento sono stati subito sospesi. Dalla fine di agosto, infatti, in India “la notizia” è la pena di morte, grazie al fatto che prima qualche canale informativo di lingua inglese e poi una quarantina di altre reti indipendenti che trasmettono in diverse lingue hanno sollevato il caso.
L’infocata controversia è stata innescata dal duplice sviluppo di quanto accaduto a Chennai, capitale dello Stato federato del Tamil Nadu, il 30 agosto. Quel giorno l’Alta Corte del Tamil Nadu ha infatti rinviato l’esecuzione, fissata per il 9 settembre, di tre persone accusate dell’assassinio, nel 1991, dell’ex primo ministro indiano Rajiv Gandhi. L’omicidio fu eseguito da un’attentatrice-suicida tamil proveniente dallo Sri Lanka che, con l’appoggio logistico dei tre accusati, ha agito su ordine delle cosiddette “Tigri Tamil”, vale a dire le Tigri per la liberazione della patria Tamil, un gruppo militante nazionalista che dal 1970 ha condotto una violenta campagna secessionista, sfociata in una vera guerra civile (1983-2009), contro il governo dell’ex Ceylon Sri Lanka allo scopo di creare uno Stato socialista tamil nel nord e nell’est dell’isola conosciuto come Tamil Ealam.
Contemporaneamente, l’Assemblea legislativa del Tamil Nadu - uno Stato che conta 72 milioni di abitanti di lingua tamil fortemente legati ai tamil oppressi nello Sri Lanka - ha votato all’unanimità una risoluzione che raccomanda di commutare in carcere la pena capitale comminata a quei tre accusati dal momento che questi hanno già scontato vent’anni di detenzione.
Il giorno seguente, il musulmano Omar Abdullah, capo del governo locale nel turbolento Stato federato del Jammu e Kashmir - spesso abbreviato semplicemente in Kashmir - ha diffuso via twitter un messaggio interrogandosi sulle reazioni che il Paese avrebbe avuto qualora l’Assemblea legislativa di quello Stato a maggioranza musulmana avesse varato una risoluzione analoga salvando la vita ad Afzal Guru, musulmano, condannato a morte per l’attacco al parlamento indiano avvenuto nel 2001. La parte del Kashmir che è amministrata dall’India (giacché un’altra è controllata dal Pakistan) è in subbuglio da anni e alcuni gruppi islamici ne chiedono l’unione con il Pakistan, Stato a maggioranza musulmana.
Ulteriori clamori ha suscitato poi la decisione di evitare il patibolo a Davinder Pal Singh Bhullar, un detenuto sikh condannato per l’esplosione avvenuta a Nuova Delhi nel 1993. Secondo le organizzazioni per la tutela dei diritti umani, Bhullar si è infatti dato al terrorismo in reazione alle sofferenze patite dalla sua famiglia a causa alla linea repressiva adottata sul finire degli anni 1980 dal governo indiano contro i separatisti sikh attivi nello Stato federato del Punjab, nel nord del Paese.
Approfittando degli sviluppi politici della questione, le organizzazioni per i diritti umani hanno quindi immediatamente chiesto di risparmiare la vita ai condannati a morte, denunciando le lungaggini processuali e i ritardi procedurali causati dal governo che per anni ha di fatto congelato le loro richieste di condono.
Oggi sono 22 le condanne a morte che, dichiarate legittime dalla Corte Suprema federale, pendono come spade di Damocle sul capo di altrettanti carcerati in attesa che il governo federale si pronunci sulle richieste di grazia che li riguardano.
Benché fra il 1975 e il 1995 l’India abbia giustiziato oltre una trentina di condannati a morte, negli ultimi 16 anni vi è stata del resto una sola ulteriore esecuzione, quella di un pluriomicida nel 2004.
In ossequio al nazionalismo indù che ne anima la politica, il Bharatiya Janata Party, cioè il Partito del popolo indiano che sta all’opposizione, si è ripetutamente e rumorosamente espresso a favore dell’impiccagione dei musulmani condannati per il clamoroso attacco al parlamento. Ma il movimento di opinione che si oppone alla pena di morte ha intanto fatto passi da gigante, affiancato dall’attenzione che i mezzi di comunicazione hanno dimostrato nei confronti del vasto numero di Paesi che nel mondo ha cominciato ad abolire l’idea mosaica di giustizia basata sull’“occhio per occhio”.
Con Haritha, la figlia di Murugan - uno dei condannati a morte per l’assassinio di Rajiv Gandhi - e di sua moglie Nalini (la cui condanna a morte è già stata mutata in ergastolo), che in televisione ha perorato il perdono del suo “amorevole” padre, il pendolo dell’opinione pubblica si è vistosamente spostato contro la pena di morte. Oggi al secondo anno di Biomedicina all’Università di Glasgow, Haritha ha trascorso l’infanzia in carcere poiché in carcere è nata: al momento dell’assassinio di Rajiv Gandhi sua madre Nalini era infatti incinta di un mese.
Ma l’indignazione generale seguita al mortale attentato compiuto davanti all’Alta Corte di Nuova Delhi - il settimo negli ultimi due anni - ha rapidamente mutato il clima generale, tornando a inasprire il tono di chi a gran voce invoca la pena di morte. Gli organi di stampa, sferzati dalla competizione, hanno così puntato tutto sulla crudezza delle immagini per aumentare l’audience, convertendosi al contempo all’idea della “sicurezza nazionale”. E in questo quadro hanno ora buon gioco i falchi nazionalisti per i quali l’India non può permettersi la linea morbida nei confronti dei terroristi.