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PER PRIMO HANNO UCCISO MIO PADRE

L'incubo dei Khmer Rossi rivissuto nel film della Jolie

Quasi un terzo della popolazione della Cambogia venne sterminato dalla dittatura comunista dei Khmer Rossi, ma dell'eccidio cambogiano c'era un solo film, Urla nel silenzio, del 1984. Angelina Jolie, l'anno scorso, ha fatto rivivere l'incubo con Per primo hanno ucciso mio padre, autobiografia di una scrittrice che nel '75 era bambina.

Cultura 17_09_2018
Angelina Jolie sul set

Angelina Jolie è nota come protagonista hollywoodiana di tante pellicole di successo. Figlia d’arte (suo padre è l’attore John Voight), è nata in una famiglia cattolica (il padre interpretò Giovanni Paolo II in un film sulla vita di questo papa). Nota alle cronache mondane per il suo (terzo) matrimonio (naufragato) col collega Brad Pitt, è ambasciatrice umanitaria dell’Unhcr, l’organizzazione Onu per i rifugiati. Ma in tempi recenti si è cimentata anche con la regia, dirigendo il film di guerra Unbroken. L’ultima sua fatica come regista (e sceneggiatrice) val la pena di essere qui ricordata, perché si tratta di un film sul genocidio cambogiano.

Lo sterminio di un quarto del popolo della Kampuchea era stato narrato solo da un altro film, Killing Fields del 1984, uscito in Italia col titolo Urla del silenzio, per la regia di Roland Joffe. Detto film fece scalpore, ma rimase un unicum. L’anno scorso ci ha pensato la Jolie a riproporre il tema e, va detto, con notevole perizia. Il film si intitola Per primo hanno ucciso mio padre ed è tratto dalla storia, vera, della scrittrice cambogiana Loung Ung, che era in Cambogia nel 1975 e aveva sette anni. Nei titoli di coda si ripropone la stessa accusa che trapela nel film del 1984: sono stati i bombardamenti americani in Cambogia, nel corso della guerra del Vietnam, a creare gli estremisti khmer rossi. Dettaglio discutibile e ancor discusso dagli storici, tuttavia il film si incentra sulla dittatura comunista vista con gli occhi di una bambina. La storia si apre sulla famiglia di Loung: benestante, cinque figli, il padre è un ufficiale dell’esercito cambogiano. Ma subito, nella scena seguente, arrivano i khmer, entrano in città e obbligano tutta la popolazione a scendere in strada, incolonnarsi e camminare verso una destinazione ignota. Gli impiegati, i funzionari, i militari, gli insegnanti devono radunarsi a parte, sotto la minaccia dei mitra, gli immancabili kalashnikov. Verranno uccisi, come il padre di Loung, abbattuto con un colpo di accetta alla nuca per risparmiare proiettili.

La famiglia viene instradata in un campo di lavoro in campagna, uno degli innumerevoli. Qui esiste solo il lavoro, incessante, intervallato da sedute di «rieducazione». Lavoro agricolo, a mano perché le macchine e i fertilizzanti sono prodotti della corruzione imperialista e capitalista. Chi si ammala è perduto, anche le medicine sono frutto del capitalismo. Chi ruba qualcosa per fame rischia la vita, basta un cetriolo. Un mondo di schiavi immerso nella miseria più nera, nera come gli indumenti che tutti sono costretti a tingere tramite bacche macerate. Si dorme sul terreno o in amache di stracci. Ogni tanto uno «spettacolo patriottico», con «compagni» e «compagne» che si esibiscono in tableaux vivants alla maoista, al suono di musiche «rivoluzionarie». E guai a non applaudire entusiasti. Si lavora mentre l’altoparlante scandisce frasi come questa: «E’ meglio commettere un errore e uccidere un innocente, piuttosto che lasciare in vita un nemico». La bimba viene scelta per diventare khmer e a sette anni deve esercitarsi a stare nell’acqua col mitra sollevato sulla testa sotto la pioggia  battente. Le sole proteine che mangia: una tarantola, un serpente. Deve imparare a piazzare mine antiuomo, abilità che le torna utile quando c’è da scappare nella foresta.

Sì, la Cambogia è in guerra con il Vietnam (pure comunista ma leggermente meno). Loung scappa mentre attorno a lei gli altri saltano in aria sulle mine, maciullati o mutilati. Una delle sue sorelle muore di fatica nel campo di lavoro. Di sua madre non ha  più notizia. Guarda stupita le statue del Buddha decapitate perché l’esistenza deve avere un solo scopo, il trionfo della rivoluzione. Struggente la scena in cui la bambina si addormenta sfinita e sogna una tavola imbandita di leccornie, come quelle che vedeva a casa sua nelle feste prima dell’incubo khmer. La storia finisce tutto sommato bene, perché Loung Ung è una sopravvissuta, ma il kattolico non può fare a meno di rivolgere un grato pensiero all’Inquisizione cattolica, che tenne per secoli l’umanità al riparo da libri come quelli, per esempio, di Marx.