Libertà religiosa, nei due terzi del mondo non c'è
Rapporto sulla Libertà Religiosa 2013: il 75% della popolazione mondiale vive in paesi che non la rispettano. Il documento presentato dal Dipartimento di Stato Usa presenta i casi più critici: Corea del Nord, Cina, Arabia Saudita, Pakistan, Centrafrica, Nigeria, Siria, Iraq. Ed è solo la punta dell'iceberg.
Le notizie di cronaca, sulle discriminazioni e persecuzioni di cristiani, sono sempre più numerose e drammatiche, specialmente nell’Iraq dominato dalle milizie dell’Isis e nella Nigeria colpita dal terrorismo di Boko Haram. Ma si rischia di perdere il quadro di insieme. Allargando lo sguardo, possiamo solo constatare che, in quasi tutto il mondo, la libertà religiosa è repressa dallo Stato o duramente colpita da milizie armate, estremisti e terroristi. È utile, dunque, avere un documento riassuntivo di quel che accade ed è per questo il benvenuto il nuovo Rapporto sulla Libertà Religiosa 2013 pubblicato il 28 luglio dal Dipartimento di Stato americano. È stato ufficialmente presentato in conferenza stampa dal segretario di Stato John Kerry, il quale ha ricordato: «Quando il 75% della popolazione mondiale vive ancora in paesi che non rispettano la libertà di culto, lasciatemi dire che abbiamo ancora una lunga strada da compiere».
Vediamo quali sono i casi più critici e quali religioni riguardano. Al primo posto troviamo sempre la Corea del Nord. Il regime ateo, comunista e isolato dal mondo, vieta ogni tipo di fede. I cristiani, che nel Sud aumentano ogni anno e si preparano a ricevere la visita di Papa Francesco, nel Nord hanno due scelte: pregare di nascosto o essere condannati. Sono legali solo piccole organizzazioni religiose direttamente controllate dal regime. Per il resto, chiunque sia accusato di proselitismo o abbia anche solo un sospetto contatto con un missionario, o con una Ong, religiosa rischia la pena di morte.
Un altro caso critico è il Pakistan, dove la “legge nera” contro la blasfemia continua a mietere vittime. Asia Bibi, la donna cristiana accusata di aver insultato Maometto in una lite con le colleghe, è in carcere da 5 anni e su di lei pende la pena di morte. Per lei vi sono poche speranze di assoluzione in appello. Tutti i magistrati ricordano che un giudice “colpevole” di aver assolto due cristiani, venne assassinato nel 1997. Dopo quel precedente, nessuno ha più il coraggio di assolvere un “blasfemo”. Paul Bhatti, ministro delle minoranze, venne assassinato il 2 marzo 2011 perché si era espresso contro la legge nera. Chi tocca quella norma muore. E intanto di “blasfemia” si continua a morire. Proprio ieri, un quartiere degli ahmadi (appartenenti a un movimento islamico nato nel XIX Secolo in India) è stato dato alle fiamme dopo un post su Facebook ritenuto blasfemo, pubblicato da un giovane abitante di 17 anni. Nel corso del pogrom sono morti una nonna con le sue nipotine di 1 e 7 anni. Quest’ultimo episodio non era ancora registrato nel rapporto, che riguarda il solo 2013. Ma dimostra come la situazione non cambi mai.
Altra “sorvegliata speciale” del Rapporto è la Repubblica Popolare Cinese, ancora comunista e intenta a controllare e reprimere le religioni dei suoi cittadini. Nel 2013, il governo di Pechino è stato impegnato su tutti i fronti: ha arrestato uno dei leader del movimento Falun Gong e lo ha deportato in un Laogai (campo di lavoro e rieducazione); ha lanciato una campagna contro i buddisti tibetani, soprattutto per reprimere il fenomeno delle auto-immolazioni di protesta; nello Xinjang la polizia cinese ha sparato contro dimostranti musulmani indipendentisti, ne ha incarcerati a centinaia e ha fatto pressioni per il ritorno forzato di coloro che cercavano asilo all’estero; in tutto il territorio cinese, poi, il regime fronteggia l’espansione delle conversioni al cristianesimo demolendo chiese e arrestando fedeli nella provincia di Henan. Tutti i cristiani “non autorizzati” sono stati condannati a pene detentive fino a sette anni. Solo la Chiesa “patriottica” è libera, chi è fedele al Papa rischia il Laogai.
Una novità, in questa classifica dell’infamia, è costituita dal Tajikistan, la repubblica asiatica “ex” sovietica dove ai minori di 18 anni è vietata ogni pratica religiosa in pubblico. E anche per i maggiorenni esistono svariate forme di vessazioni: alle donne è vietato entrare in moschea, tutti i gruppi religiosi non registrati sono vietati, la polizia compie retate in luoghi di culto frequentemente, siano essi registrati o no. Il Tajikistan è in buona compagnia: nella stessa regione, anche il Turkmenistan perseguita i testimoni di Geova, arrestando e torturando suoi esponenti. E quel regime post-sovietico vieta, in genere, ogni forma di diffusione di pubblicazioni religiose. In Uzbekistan ogni gruppo religioso non registrato è bandito e dietro al pretesto dell’accusa di estremismo, dalle 10 alle 12mila persone, in maggioranza musulmane, sono in carcere. Si segnalano molti casi di morti in galera, sotto tortura. La Russia stessa, che per molti, nell’opinione pubblica occidentale, appare come un nuovo faro di religiosità riacquisita, non si distingue affatto per la libertà di culto. Anzi. A far le spese della persecuzione poliziesca sono soprattutto i testimoni di Geova, come nelle altre repubbliche ex e post sovietiche, ma anche i cristiani che appartengono a Ong con collegamenti esteri sono sotto stretta sorveglianza. Agli stranieri è proibito partecipare a organizzazioni religiose. E nel Caucaso del Nord, soprattutto nella Cecenia governata col pugno di ferro da Ramzan Kadirov (fedelissimo alleato del presidente Vladimir Putin) si è instaurato un vero e proprio sultanato, dove la sharia è anche formalmente applicata e le minoranze non sono tollerate.
Fra i casi particolarmente gravi, troviamo anche i soliti noti del Medio Oriente e Corno d’Africa. Eritrea: fino a 3000 persone sono in galera, in condizioni terribili, per motivi religiosi, perché non appartengono all’islam sunnita, né alle chiese cristiane riconosciute ufficialmente dal regime. L’Arabia Saudita, monarchia assoluta sunnita, è sempre un luogo di assoluta repressione islamica, dove non è possibile neppure mostrare in pubblico libri o simboli religiosi non musulmani, non è permesso neanche avvicinarsi in auto alla Mecca e a Medina se non si è musulmani (le stesse strade e autostrade sono separate, un esempio unico di segregazione totale). L’Iran, musulmano sciita, vieta ogni forma di proselitismo, arresta soprattutto cristiani e zoroastriani (appartenenti alla religione più antica della Persia) per ogni loro pubblica manifestazione di fede. In Bahrein, in compenso, sono soprattutto i musulmani sciiti a subire discriminazioni e arresti arbitrari da parte della minoranza sunnita che regna sovrana.
Nemmeno i buddisti sono esenti da colpe. In Birmania, sia il governo che milizie irregolari, commettono sistematiche violenze contro la minoranza cristiana nella regione di Kachin e soprattutto contro i musulmani nella regione di Rakhine e a Meiktila, dove, complessivamente, i pogrom hanno provocato 140mila profughi. In genere, anche sotto il governo civile che è subentrato alla giunta militare, chi non è buddista non può far carriera, né nell’esercito, né nell’amministrazione.
Tutti questi “casi speciali” segnalati dal Rapporto 2013 sono solo la punta dell’iceberg delle persecuzioni di Stato. Vi sono, in realtà, tantissimi altri paesi che negano la libertà di culto: basti pensare al Vietnam, al vicino Laos, al Nepal e a tanti altri regimi dimenticati in Asia, Africa e Medio Oriente. E i loro abusi sono talmente sistematici, talmente “normali”, che ormai non fanno nemmeno più notizia. Fanno parlare di sé, piuttosto, altri paesi, in cui la libertà di culto è formalmente garantita dalla legge, ma repressa, di fatto, dalla violenza di milizie irregolari e gruppi terroristi, nel corso di guerre civili o pogrom. Ad essi è dedicata un’intera sezione del Rapporto, dove ritroviamo nomi a noi tristemente noti: India, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria (circa 1000 morti provocati da Boko Haram), Egitto (nel 2013 ha registrato il picco delle violenze contro i cristiani, quando i Fratelli Musulmani erano al potere e subito dopo la loro cacciata), in Siria (dove i profughi cristiani sono 160mila solo da Homs) e soprattutto Iraq. Che nel 2013 non era ancora finito nelle sgrinfie dell’Isis, ma ugualmente si segnalava per la crescente violenza terrorista contro le minoranze cristiane.
Per chiunque abbia fede e la pratichi, nella maggior parte dei paesi del mondo trova un inferno in terra. Praticamente solo nelle democrazie liberali del mondo industrializzato trova la pace e, per lo meno, la possibilità di essere difeso dalla legge. Ma non illudiamoci, il rapporto dimentica alcuni dettagli importanti. Kerry, nel presentarlo, sottolinea: «Noi (statunitensi, ndr) non diciamo al popolo come deve vivere e in cosa deve credere. Noi chiediamo solo il rispetto per il valore universale della tolleranza». Ma è proprio nel nome della “tolleranza”, troppo spesso fraintesa, ancor più spesso intesa a senso unico (a favore di minoranze non cristiane), che anche nelle democrazie liberali si stanno gradualmente imponendo nuove forme di intolleranza, censura e repressione. E così, nel nome della “tolleranza”, anche in Paesi liberi come Norvegia, Gran Bretagna, Francia, Canada e negli stessi Usa, sacerdoti che citano passi “politicamente scorretti” del Vangelo vengono arrestati, simboli religiosi sono banditi dal pubblico, la libertà di esprimere la propria fede, se giudicata “offensiva” può costare il licenziamento e l’emarginazione. Almeno ci si può difendere in tribunale. Non siamo in Cina, in Corea del Nord o in Arabia Saudita. Ma, come ricordano molto spesso proprio gli americani, la libertà, soprattutto quella di credere, non deve essere mai data per scontata. Anche nel mondo libero, va difesa e occorre sempre vigilare.