Libertà religiosa, la controversia continua
La Dignitatis humanae riconosce alla persona il diritto alla libertà religiosa e dice che anche uno Stato che si dichiari cattolico deve concedere gli stessi diritti a tutte le religioni. Ma questo principio va contro quanto insegnato dai Papi prima del Vaticano II.
La dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II non ha posto la parola “fine” alla questione della libertà religiosa e il quadro rimane ancora aperto. Don Claude Barthe pubblica sull’ultimo numero della rivista madrilena Verbo un eccellente articolo (nn. 623-624, marzo-aprile 2024, pp. 251-264) che inizia da questa domanda: «La Chiesa come è passata del condannare la libertà religiosa alla sua accettazione?».
Il magistero precedente il Vaticano II aveva dato un insegnamento dottrinale molto chiaro. Gli Stati che non hanno conosciuto il cristianesimo, compresi quelli che lo hanno storicamente preceduto, erano legittimati dal perseguire il bene comune secondo la legge naturale, mentre gli Stati che sono stati “battezzati” dal cristianesimo fondavano il potere su Cristo Re, con un obbligo nei confronti della verità della Rivelazione.
La Dignitatis humanae riconosce alla persona il diritto alla libertà religiosa. Finché questo significa immunità dalla coazione non ci sono problemi, ma quando vuol dire il diritto a diffondere in pubblico l’errore considerato sullo stesso piano della verità, la cosa assume una impostazione diversa. Il numero 2 della dichiarazione conciliare afferma che in nessun caso un potere umano può impedire ad altri esseri umani di esprimere pubblicamente un errore religioso dettato dalla propria coscienza erronea. In questo modo viene consacrata una “intrinseca neutralità religiosa”. Secondo la Dignitatis humanae anche uno Stato che si dichiari cattolico deve concedere gli stessi diritti a tutte le religioni. Infatti, il paragrafo 6 dice che, se il potere politico garantisce ad una confessione religiosa un riconoscimento speciale dentro l’ordinamento giuridico della società, è necessario che lo stesso venga riconosciuto a tutte le comunità religiose. Il Vaticano II, in questo modo, ha eliminato come sorpassato il principio fondamentale insegnato dai Papi dopo la Rivoluzione francese, ossia che il potere civile non possa essere indifferente alla vera religione. La società, anche per le stesse esigenze della legge naturale, non può essere atea, ma appunto questa indifferenza significa ateismo.
Quando i pontefici precedenti il Concilio condannarono la libertà religiosa, era perché avevano visto che dietro di essa nasceva un “diritto nuovo” come base di uno “Stato nuovo”. Questo nuovo diritto era sovversivo del diritto naturale. Se questo nuovo diritto fosse stato assunto da uno Stato cristiano si sarebbe avuta la tragedia di uno Stato cristiano che rifiutava il diritto naturale, ossia Dio creatore. Qualcuno allora ritenne possibile accettare una “laicità positiva”, ossia limitata all’accettazione della legge naturale, ma questo fu materialmente impedito da una seconda secolarizzazione che investì non solo la regalità di Cristo ma anche la stessa legge naturale. Oggi questo è molto evidente, non siamo più in una società pagana “classica” ma in una “società di apostasia”.
Benedetto XVI nel discorso alla Curia romana del dicembre 2005 si è riferito alla Dignitatis humanae come esempio di una «ermeneutica della riforma nella continuità». Egli ha detto che era necessario definire un nuovo modo di relazione con lo Stato moderno, sostenendo che lo Stato moderno era nel frattempo cambiato, il razionalismo antireligioso si era attenuato, soprattutto in America era nato uno Stato più neutrale che ostile, e i politici cattolici in Germania e in Italia avevano dimostrato che poteva esistere uno Stato laico rispettoso dell’etica naturale. Benedetto XVI sembra dire che i principi dottrinali non sono da allora cambiati, ma sono cambiate le condizioni politiche e pastorali. Però quanto affermato dai pontefici precedenti aveva un chiaro intento dottrinale.
Stefano Fontana