Lgbt contro la Brexit, infatti per loro l'Ue è vitale
La potente lobby Ilga, che ha sede a Bruxelles e viene finanziata dalla Commissione, pubblica un manifesto in cui sono elencati cinque elementi chiave per la permanenza nell’Ue. Le istituzioni europee «hanno aiutato ad assicurare l’uguaglianza Lgbt nel Regno Unito molto più velocemente».
Quando mancano pochi giorni al referendum del 23 giugno, è ormai esplicita la contrarietà della lobby Lgbt rispetto a un’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Già a maggio il deputato conservatore Ben Howlett, un ventinovenne di dichiarata tendenza omosessuale, aveva scritto un appello su un portale gay, esortando la comunità arcobaleno a votare contro la Brexit perché “la nostra appartenenza all’Unione europea è stata vitale per migliorare i diritti Lgbt nel Regno Unito”. Nel ricordare che l’affermazione dell’agenda Lgbt è stata facilitata da alcune sentenze della Corte di giustizia europea e da direttive comunitarie, Howlett aveva anche sottolineato che “il Parlamento europeo sta adesso spingendo per estendere il riconoscimento legale delle unioni dello stesso sesso a tutti gli Stati membri”: un fatto che rende bene l’idea del condizionamento in corso, così pervasivo da ignorare volutamente che queste materie sono di competenza dei singoli Paesi.
Dopo l’invito di Howlett, l’8 giugno è stata la volta dell’International lesbian and gay association (Ilga), con la pubblicazione di un documento in cui sono elencati cinque elementi chiave che nella loro ottica rendono necessario il voto per la permanenza nell’Ue. L’Ilga-Europe, che ha il suo quartier generale proprio a Bruxelles e viene cospicuamente finanziata dalla Commissione europea attraverso il programma Diritti, uguaglianza e cittadinanza 2014-2020 (tra l’altro, è noto che la stessa Commissione ha prenotato una barca per la sfilata finale dell’EuroPride in programma ad agosto nei canali di Amsterdam), argomenta infatti che l’Ue “è stata la prima organizzazione internazionale a riconoscere esplicitamente l’orientamento sessuale e l’identità di genere come meritevoli di tutela legislativa contro le discriminazioni”, da intendere nel senso distorto della neolingua Lgbt, secondo cui sarebbe discriminatorio non poter adottare, sposarsi o cambiare sesso all’anagrafe.
Tutta la gamma dei nuovi diritti, insomma, che nel Regno Unito sono stati approvati da tempo (con qualche lieve differenza tra le quattro nazioni che lo compongono), inizialmente promossi dai governi laburisti di Tony Blair e Gordon Brown e poi, dal 2010 a oggi, ulteriormente ampliati sotto la guida del premier conservatore David Cameron, che oltre a essere tra i principali promotori del “matrimonio” egualitario si è spinto a inventare le quote arcobaleno nella Bbc e a impegnarsi per mettere al bando le cosiddette terapie riparative. Ecco perché l’associazionismo Lgbt lo adora e ne sostiene la campagna per rimanere nell’Ue, attorno alla quale si gioca una buona parte del futuro politico di Cameron.
Per l’Ilga è molto più rassicurante sapere che la Gran Bretagna, terza nella Rainbow Map dedicata al Vecchio Continente (con l’81% di completamento dell’attuale programma pro Lgbt), continui il suo percorso al fianco delle istituzioni europee, in uno scambio reciproco in cui entrambi gli attori favoriscono politiche gay friendly: “Se il Regno Unito si considera un faro per l’uguaglianza Lgbt, può lavorare per usare questa influenza condividendo la sua expertise con quegli Stati membri che hanno leggi meno complete”, si legge sempre nel documento dell’Ilga, che elogia anche le sentenze della Corte di giustizia europea perché “hanno aiutato ad assicurare l’uguaglianza Lgbt nel Regno Unito molto più velocemente” di quanto i britannici avrebbero potuto fare da soli. Un ragionamento che sul piano pratico non fa una piega, nel senso che interpreta benissimo quel mantra “ce lo chiede l’Europa”, sfruttato secondo le convenienze politiche del momento.
Al di là di tutte le altre considerazioni che si possono fare sulla Brexit, sarebbe davvero stravagante se per la permanenza nell’Ue del Regno Unito, lo Stato membro tradizionalmente più isolazionista e con il più alto numero di opt-out (cioè la rinuncia ad aderire a specifiche previsioni dei trattati, dall’unione monetaria a Schengen), risultasse in qualche modo decisiva la “causa comune” delle rivendicazioni arcobaleno. Nell’Europa che ha rifiutato di riconoscere le radici cristiane in quella che sarebbe dovuta diventare la sua Costituzione - a parte qualche eccezione rappresentata da alcuni Paesi dell’Est che di quelle radici vanno fieri (in primis la Polonia), a maggior ragione dopo aver sperimentato la realtà del regime comunista - sembra proprio che l’agenda gay sia l’unico elemento che mette tutti d’accordo.