Lewis, oltre a Narnia c'è l'apologeta
Il cristianesimo di Clive Staples Lewis non è soltanto quello che traspare sotto il velo dell’allegoria nel suo straordinario romanzo fantasy Le Cronache di Narnia. I grandi temi della fede cristiana, in particolare la bontà e l’onnipotenza divina, la caduta dell’uomo, il peccato e le sue conseguenze, e in specie il dolore umano e la morte, sono infatti affrontati dall’autore inglese in una serie di saggi con vero spirito di apologeta.
Il cristianesimo di Clive Staples Lewis non è soltanto quello che traspare sotto il velo dell’allegoria nel suo straordinario romanzo fantasy Le Cronache di Narnia. I grandi temi della fede cristiana, in particolare la bontà e l’onnipotenza divina, la caduta dell’uomo, il peccato e le sue conseguenze, e in specie il dolore umano e la morte, sono infatti affrontati dall’autore inglese in una serie di saggi contenuti in The Problem of Pain e pubblicati nel 1940.
Nella prefazione a Il problema della sofferenza (Morcelliana, 2017) egli scrive: “Se qualche parte di questo libro fosse ‘originale’, nel senso di lontano dall’ortodossia, questo è contro la mia volontà e risultato puramente della mia ignoranza”, manifestando così la propria vocazione intellettuale di vero apologeta. Docente a Oxford dal 1925, collega e amico di Tolkien, Lewis passò dall’intuizione ideale dell’esistenza di Dio alla consapevolezza della sua presenza nella vita quotidiana e, di qui, dall’anglicanesimo a una fede cattolica vissuta come esperienza e incontro con Cristo. Allo stesso modo, quanto egli teorizzò ne Il problema della sofferenza confluì nell’esperienza personale del dolore che visse in seguito alla morte della moglie e che raccontò in Diario di un dolore.
Riguardo al tema dell’amore e dell’onnipotenza del Creatore, egli afferma che “la bontà divina differisce dalla nostra non come il nero dal bianco, ma come differisce dal cerchio perfetto la prima ruota disegnata da un bambino”, per cui il compito della creatura è quello di rispondere generosamente a tale chiamata all’amore del suo Creatore. “La nostra più nobile e più alta iniziativa dev’essere risposta, non iniziativa – scrive Lewis – poiché la nostra possibilità di amare è un suo dono e la nostra libertà, una libertà di rispondere meglio o peggio”. A tal proposito, con una chiarezza disarmante e senza mezzi termini, egli precisa, ancora in ossequio alla dottrina cristiana, che “quando vogliamo essere qualcosa di diverso da quel che Iddio vuole che siamo, noi vogliamo ciò che in realtà non potrà renderci felici”.
Relativamente al tema del dolore, egli lo definisce come “il rude gusto della realtà che non è fatta né da noi, né per noi, ma che ci colpisce in faccia”. Il dolore può essere però talvolta anche “il tocco del Maestro”, ovvero una spia intelligente che evita che “possiamo riposare soddisfatti sui nostri peccati e sulle nostre stupidità”. Infatti “il dolore insiste per essere ascoltato. Dio si fa dolcemente sentire nei nostri piaceri, parla alla coscienza, ma nel dolore colpisce; è il suo portavoce per svegliare il mondo sordo”. In tal senso la sofferenza risulta allora come un’arma a doppio taglio, e l’autore de Le Cronache di Narnia ne è ben consapevole, in quanto se da un lato può portare anche “alla ribellione finale e impenitente”; dall’altro, decisamente auspicabile, “è l’unica possibilità di correzione per il cattivo”, perché “rimuove il velo, innalza la bandiera della verità sulla fortezza dell’anima ribelle”.
Riguardo alla meta ultima delle anime e ai novissimi, l’autore inglese evidenzia che se per i dannati “le porte dell’inferno sono chiuse dal di dentro”, poiché costoro sono “schiavi di loro stessi”, al contrario i beati “se si sono sottomessi per sempre all’obbedienza, diventano nell’eternità sempre più liberi”. Il premio che attende le anime fedeli è infatti il paradiso, in cui Dio si dona eternamente alle sue creature e dove ciascuno in una comunione perfetta d’amore e di pace è libero di esclamare con gioia: “Finalmente, questo è proprio ciò per cui sono stato creato”.