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MEDIORIENTE

L'Europa pagherà la sua folle politica in Medio Oriente

La politica estera dell’Unione Europea è visibilmente allo sbando anche sul conflitto israelo-palestinese. Con la differenza che mentre di fronte al conflitto russo-ucraino si giustifica con l'impossibilità di una posizione univoca, ostenta invece una gara senza briglie nel riconoscimento dello Stato palestinese. 

Esteri 07_12_2014
Europa-Israele: rapporti sempre più difficili

La politica estera dell’Unione Europea è visibilmente allo sbando anche sul conflitto israelo-palestinese. Con la differenza che mentre di fronte al conflitto russo-ucraino nasconde all’interno della istituzione comunitaria l’impossibilità di conciliare gli interessi di alcuni Paesi membri e i timori di altri (rifugiandosi nei confronti di Kiev in una solidarietà prudente; e nei confronti di Mosca in un attendismo pieno di contraddizioni e di equivoci), ostenta invece una gara senza briglie nel riconoscimento dello Stato palestinese indipendente. Ogni nazione decide da sé, come dimostra l’ultimo voto dell’Assemblea Nazionale francese, sulla scia di quelli della Camera dei Comuni inglese e dei parlamenti di Irlanda e Spagna. 

Nella sostanza, però, e nella ipocrisia, è un voto del tutto identico perché viene accreditato innanzitutto come “simbolico” , in quanto non impone ai governi di accettarlo, e poi come “stimolo” alla promozione della pace quando da un lato Israele, amareggiato, va ripetendo, inascoltato, che voti del genere allontano ogni possibilità di raggiungere un’intesa con i palestinesi; e dall’altro l’Autorità Nazionale Palestinese, esultante, sfida soltanto i governi a non disattendere la volontà dei loro parlamenti. Essa vede sempre più realizzabile, e vicino, il disegno di imporre a Israele, con le pressioni della comunità internazionale, quel che non è riuscita né potrà mai riuscire ad ottenere con una trattativa.  Vien dato per scontato il voto unanime, la settimana ventura, del Parlamento belga, mentre in Italia non è stata finora calendarizzata nessuna votazione per le mozioni presentate, due alla Camera dei deputati, una al Senato. 

Lo sbando in cui si muove l’Unione Europea sembra generato innanzi tutto dall’ attenzione concentrata sulle conseguenze del conflitto israelo-palestinese (eloquenti le macerie e le miserie nella striscia di Gaza provocate da cinquanta giorni dell’ultima guerra; l’infiammarsi delle mai sopite tensioni religiose a Gerusalemme; la persistente ostilità dei palestinesi alla presenza dei coloni ebrei in Cisgiordania e allo sviluppo edilizio dei loro insediamenti). Le cause, di grande importanza, passano in secondo piano, relegate a materia di riflessione di una nicchia ristretta di esperti e analisti. Mentre l’opinione pubblica, che ha un ruolo per nulla secondario, esige e si accontenta di un’informazione sintetica; che però, in quanto incompleta, è fuorviante per la comprensione di una realtà molto complessa. Poi c’è la presunzione di vedere il conflitto, e di proporne la soluzione, secondo principi, criteri, consuetudini e parametri propri; che però sovente non sono quelli delle parti in causa.  

Con l’aggravante, nel gioco politico di tali processi, di non distinguere, e nemmeno denunciare e neutralizzare, le insidiose riserve mentali, le perverse strumentalizzazioni, i passi falsi. Tutte queste negatività hanno segnato il fallimento del processo di pace israelo-palestinese. Che, ricordiamolo, intrapreso nel 1991 con la Conferenza di Madrid, è stato ripreso e abbandonato più volte, l’ultima lo scorso aprile quando Israele lo ha interrotto a seguito dell’accordo che ha portato al governo dell’Autorità Nazionale Palestinese, accanto ai seguaci del presidente Abu Mazen, leader di Al Fatah, i fondamentalisti islamici di Hamas. Che mai hanno abiurato alla loro ragione di essere: la distruzione dello Stato ebraico, con maggior forza da quando hanno conquistato il potere a Gaza. Le votazioni dei Parlamenti europei che sorvolano su questo aspetto preclusivo della possibilità per Israele di riattivare un negoziato con un interlocutore credibile, si prestano così a sorreggere un’operazione diversiva, di grande enfasi mediatica, ma inconcludente. E riescono a esasperare le tensioni. 

In effetti, questa alleanza politica interpalestinese e poi la sollevazione dei fedeli musulmani a “difesa” della Spianata delle Moschee di Gerusalemme, insidiata dall’“oltraggioso” tentativo di fedeli ebrei, in occasione delle feste di Succot, di accedervi per pregare ( è lo stesso luogo del  sacrificio di Abramo e del Tempio di Salomone ed Erode); ed infine nella città alcuni gravi attentati terroristici palestinesi, il più grave con l’assassinio di quattro rabbini in preghiera in una sinagoga, hanno spinto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ad alzare il tiro. Indubbiamente sollecitato dalle reazioni dei partiti nazionalisti, ha proposto alla Knesset una legge volta a proclamare Israele “Stato della nazione ebraica”, a proporre cioè una configurazione istituzionale nuova che potrebbe però alterare gli equilibri su cui la sua democrazia si è retta. Pericolo avvertito non solo dai partiti di sinistra e dai movimenti pacifisti, ma anche dal presidente della nazione Reuven Rivlin, noto esponente della destra.

L’iniziativa di Netanyahu ha fatto così da detonatore alla tenuta della sua coalizione di governo per l’aperta opposizione di due ministri, leader di partiti di centro, che ha portato rapidamente alla richiesta del Premier di scioglimento della legislatura (dopo appena 22 mesi di vita). Richiesta analoga alla Knesset, nelle avvisaglie della crisi, era stata fatta due giorni prima, dai partiti Laburista e Meretz (di sinistra). Le nuove elezioni si svolgeranno il 17 marzo.  

Netanyahu, alla guida del Likud, è convinto di vincerle e di poter guidare una nuova coalizione governativa di destra, allargata ai partiti religiosi. Ma se la lista di una destra più nazionalista, come quella del russofono Avigdor Lieberman o più estrema, sostenuta da coloni oltranzisti, come quella di Naftali Bennet, dovessero ottenere più voti della sua, potrebbe determinarsi quel tramonto che gli ha preconizzato Yair Lapid. Questi, capo del partito di centro Yesh Atid, ha spiegato la rottura dell’alleanza affermando che Netanyahu «si è sconnesso totalmente dal Paese… Dimentico dei reali problemi della gente vive come in un acquario.. Non sarà più primo ministro». In effetti nel Paese si nota un diffuso malcontento per l’aumento del costo della vita, dovuto anche alle maggiori spese militari e ai contributi per lo sviluppo degli insediamenti di coloni in Cisgiordania. I sondaggi escludono che la sinistra, da tempo in perdita di credibilità e di consensi elettorali, possa prevalere.

Per il processo di pace si ripresenterebbero dunque fra pochi mesi le medesime prospettive odierne. Fors’anche peggiori perché Israele, con una coalizione di governo ancora più di destra, non si sentirà di piegarsi alle pressioni internazionali esercitate dalle votazioni dei parlamenti europei e dalla risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu (la sua approvazione è data per certa) con la quale, su richiesta della Lega Araba, viene imposta una scadenza, il 2017, per concludere il negoziato sulla nascita dello stato indipendente della Palestina. Peggiori, a meno che evolva nel frattempo la situazione bellica nei paesi vicini e sia stata fermata la destabilizzazione creata, non solo in Medio Oriente, dal Califfato islamico.