Legge di Stabilità, la miglior manovra possibile?
La Legge di Stabilità presentata dal Governo è stata ampiamente criticata. Ma è la migliore possibile, se non si vuole ridisegnare il sistema Italia. Ci sarebbe da rifare il federalismo, razionalizzare la spesa, abbassare le tasse. Ma sono tutti obiettivi resi irraggiungibili dai veti incrociati. E quindi? Accontentiamoci.
Criticare sarebbe (ed è stato) molto facile. E non per nulla la Legge di Stabilità presentata dal Governo a metà ottobre è stata subito presa di mira da imprenditori e sindacati, uniti nel proclamare che si doveva fare di più, oltre che naturalmente dall’opposizione (come da copione) e dagli immancabili critici all’interno della maggioranza.
Certo. Si doveva dare di più. Ridurre di più le tasse. Aumentare ancora di più i benefici per le imprese. Trovare nuove forme per rilanciare l’economia. Ma con un piccolo particolare: questa manovra è la migliore manovra possibile senza addentrarsi nel percorso, che sarebbe indispensabile, dei cambiamenti strutturali, delle riforme costituzionali, delle modifiche incisive delle leggi e delle regole attuali.
Perché il Governo non solo si è trovato a dover mediare tra le forze che lo compongono, ma soprattutto ha dovuto fare i conti con gli stretti margini di manovra consentiti, soprattutto sul fronte dei tagli di spesa, dall’attuale blocco legislativo. È ormai evidente, per esempio, che il federalismo all’italiana adottato fino ad ora ha comportato e comporta un evidente spreco di risorse finanziarie: la crescita della spesa delle Regioni è diventata sempre più rapida, ma non è calata anzi ha continuato ad aumentare anche la spesa del Governo centrale. Il federalismo fiscale è rimasto una grande riforma incompiuta e le ambizioni personali unite alle strategie clientelari dei vertici delle Regioni (chi più, chi meno) hanno fatto il resto.
Il federalismo è tuttavia un tabù intoccabile, un dogma che non si può più discutere anche se gli ultimi anni hanno dimostrato come sarebbe sempre più importante ripensare alla radice un decentramento che ha moltiplicato i costi e ridotto l’efficienza dei meccanismi pubblici.
Ma la rivoluzione dell’efficienza non fa parte della prospettiva attuale della politica. Perché a sinistra bisognerebbe riconoscere che la riforma costituzionale del Titolo V è stata un clamoroso autogol e a destra bisognerebbe spezzare quel filo strategico che unisce ancora il Pdl (o Forza Italia) alla Lega. Quindi spendere meno, ma spendere meglio sarebbe possibile solo se si riuscisse a compiere un passo in avanti rivoluzionario nella storia della Repubblica: rimettere ordine in quella che potremmo chiamare l’architettura istituzionale del Paese. E quindi un federalismo leggero con una chiara divisione dei compiti, l’abolizione della Province, l’adozione del principio di responsabilità, l’avvio di controlli di qualità con un severo rispetto della correttezza dei bilanci. Una radiografia non può costare in Campania dieci volte più che in Lombardia.
Ma tutto questo appare, come detto, politicamente impossibile. Il Governo deve giocare con le pedine e sulla scacchiera che i suoi sventurati predecessori gli hanno lasciato. E quindi ha in gran parte le mani legate perché la spesa pubblica continua a rispondere più a principi di automatismo che di razionalità.
Allora accontentiamoci dei piccoli aggiustamenti, del modesto taglio del cuneo fiscale, della proroga dei bonus per le ristrutturazioni e l’acquisto di mobili. È meglio di niente il miliardo che andrà agli enti locali per gli investimenti. E speriamo che non sia un bluff la promessa di dismissioni di beni immobili dello Stato per 1,5 miliardi in tre anni.
Diciamolo con un po’ di amarezza: questa manovra è la migliore delle riforme possibili. Chi protesta non fa che seguire l’italica logica bartaliana (da Gino Bartali) del “tutto sbagliato, tutto da rifare”. Non è così. Questa manovra va nella direzione giusta. Certo, ci sarebbe da ridisegnare l’Italia. Ma questo è un altro discorso. E per ora una battaglia persa.