Lega formato nazionale, 5 Stelle "imprigionati" al sud
I Cinque Stelle hanno resistito solo al sud e nelle isole. Sono dunque diventati ormai un partito meridionale. Il paradosso è che la Lega, che invece era nata per “liberare il nord”, ora si ritrova ad essere un partito nazionale a tutti gli effetti, radicato anche al sud con percentuali a due cifre e in crescita.
Tra i segnali emersi dalle urne di domenica scorsa, che si sono rivelate un vero e proprio referendum sulla leadership di Matteo Salvini, si evidenzia il crollo di consensi ai Cinque Stelle, che sprofondano al terzo posto dopo il Pd. Questo è già stato ampiamente rimarcato da tutti, ma un ulteriore elemento non va sottaciuto: i Cinque Stelle hanno resistito solo al sud e nelle isole.
Sono dunque diventati ormai un partito meridionale. Il paradosso è che la Lega, che invece era nata per “liberare il nord”, ora si ritrova ad essere un partito nazionale a tutti gli effetti, radicato anche al sud con percentuali a due cifre e in crescita. Il suo leader si comporta come se fosse premier e, cavalcando il risentimento popolare assai diffuso in materia di immigrazione, tanto al nord quanto al centro quanto al sud, è riuscito a consolidare la sua immagine, per così dire, “post-padana”.
Di Padania non parla più nessuno, di secessione men che meno, perché a votare la Lega sono stati nelle ultime elezioni di domenica scorsa anche gli elettori che il 4 marzo 2018 alle politiche avevano scelto i Cinque Stelle o altri partiti. Ciò significa che anche al sud il “Capitano” è risultato più credibile rispetto ai rivali pentastellati, che pure puntavano a fare il pieno di voti grazie al reddito di cittadinanza e ad altri provvedimenti di natura assistenzialistica.
L’emorragia di voti dal serbatoio pentastellato è risultata assai marcata al centro e al nord e contenuta al sud. Questo rende i Cinque Stelle una forza politica ormai esclusivamente meridionale e tale connotazione appare destinata a produrre riflessi anche sulla stessa tenuta del governo. Infatti, ben difficilmente i grillini potranno cedere ai diktat leghisti sull’autonomia, per il semplice fatto che rischierebbero di perdere anche i voti del sud, meno sensibile al tema. A parole anche calabresi, campani e molisani si dichiarano interessati ad una redistribuzione di poteri alle regioni, ma poi nei fatti non si stracciano più di tanto le vesti affinchè ciò accada. In quei territori il vento autonomista soffia in modo assai più blando. Invece per gli esponenti locali del Carroccio e gli abitanti delle regioni settentrionali la questione è ormai diventata di vita o di morte. Tanto più che nell’ottobre 2017 un referendum in Lombardia e Veneto ha formalizzato anche la volontà delle popolazioni di quelle due regioni di procedere con un’autonomia differenziata in grado di favorire una più ampia e flessibile gestione delle risorse regionali.
Fino alle elezioni di domenica scorsa volutamente i due alleati di governo hanno evitato l’argomento autonomia, al fine di non alimentare dissidi già aspri su varie altre questioni. Ora Matteo Salvini, ancor più dopo la vittoria in Piemonte, sollecitato dai governatori del nord, vuole incassare il dividendo elettorale anche su questo fronte.Il ministro Erika Stefani ha di recente dichiarato che la materia sarà di nuovo all’esame di uno dei prossimi Consigli dei ministri. Sarebbe opportuno che i due alleati di governo trovassero la quadra su un tema come quello dell’autonomia, destinato a incidere in misura determinante sul riassetto dei poteri dello Stato e sulle competenze regionali.
A un anno esatto dalla nascita del governo Conte, venuto alla luce dopo tre mesi di estenuanti trattative, bisogna prendere atto che non solo l’autonomia è stata sacrificata sull’altare dei tatticismi giallo-verdi, ma anche tante altre promesse fatte in campagna elettorale e formalizzate nel contratto di governo non hanno ricevuto attuazione (vedi Grandi opere e riforma fiscale) e altre “patate bollenti” come Alitalia sono solo state accantonate senza essere state affrontate sul serio.
Su una situazione statica e sempre più involuta pesa la parabola discendente del Movimento Cinque Stelle, propostosi come rivoluzionario ma pian piano risucchiato nelle peggiori logiche del sistema politico. Una forza di rottura che ora sembra blindarsi alle poltrone di governo per paura di non avere una seconda chance dall’elettorato e che appare costretta a premiare un leader come Luigi Di Maio sconfitto in tutte le elezioni amministrative ed europee dell’ultimo anno e ancora in sella per mancanza di vere alternative.
Le votazioni pressochè plebiscitarie in suo favore sulla piattaforma Rousseau, lungi dall’essere una dimostrazione di forza per il vicepremier, svelano l’immaturità grillina nel voler affidare alla base le decisioni più delicate che invece spetterebbero agli eletti (successe anche sulla difesa di Matteo Salvini sul caso Diciotti). Se i Cinque Stelle, nonostante il reddito di cittadinanza e altri provvedimenti anti-casta, sono in caduta libera, ben difficilmente potranno recuperare il terreno elettorale perduto accondiscendendo a tutte le richieste del Carroccio, che ora può tirare la corda, anche a rischio che si spezzi.