Le trappole lasciate dalla politica estera di Obama
Oggi è l’ultimo giorno della presidenza Obama. Il bilancio della sua politica estera è fortemente in rosso, considerando i disastri in Medio Oriente, la ripresa della tensione in Europa e i rischi di una grande crisi in Asia. La sua è stata una presidenza militante e al tempo stesso debole che lascia in eredità tante crisi ad orologeria.
Oggi è l’ultimo giorno della presidenza Obama. Domani si insedia Donald Trump. La stragrande maggioranza degli editoriali, a partire da quello di Enrico Deaglio sull’Unità, esprimono un grande timore, misto a rancore, per il prossimo presidente degli Stati Uniti. Pochi, tuttavia, affrontano il tema veramente scottante: che America e che mondo lascia in eredità il presidente uscente.
L’ultimo atto dell’ormai ex capo di Stato è la grazia concessa a Bradley Manning, l’uomo che ha venduto a Julian Assange (WikiLeaks) una quantità senza precedenti di documenti segreti e riservati, il più grave atto di spionaggio della storia recente degli Stati Uniti. Oggi Bradley, che ha cambiato sesso e si chiama Chelsea, tornerà libero e impunito. E’ quantomeno singolare che proprio Obama e proprio in questo periodo, caratterizzato dalle accuse alla Russia di aver carpito i segreti della politica americana, conceda la sua grazia a una spia. La spiegazione, a pensar male, può essere ricondotta alla politica politicante. Bradley/Chelsea Manning ha svelato segreti della guerra in Iraq, contro cui Obama ha fatto campagna sin dal 2008 e dalla quale ha ritirato tutte le truppe. I segreti venduti e pubblicati sono serviti a screditare la precedente amministrazione Bush e a lanciare avvertimenti ai nemici attuali e potenziali degli Stati Uniti. Tutto nell’interesse dell’amministrazione democratica. Quando, invece, la stessa WikiLeaks ha pubblicato le email della Clinton, di Podesta e della Convenzione Nazionale Democratica, in quel caso si sono levati gli alti lai di Obama e si grida al pericolo per la democrazia, alla minaccia dello spionaggio sul Web.
Ripensando alla politica di Obama è sempre difficile distinguere fra la politica interna e quella estera. La campagna per l’introduzione del matrimonio gay in tutti e 50 gli Stati americani (vinta con la storica sentenza alla Corte Suprema e festeggiata dalla Casa Bianca), si è tradotta nella promozione dei diritti Lgbt in tutto il mondo: appoggio politico per i governi democratici che li hanno promossi, ricatto umanitario, attraverso l'Onu (diritti in cambio di aiuti), per i partner più poveri. Su questo argomento, la Nuova Bussola Quotidiana ha scritto in più occasioni. Resta da constatare uno strano silenzio, da parte di Obama, sull’Iran, che condanna a morte gli omosessuali: in quel caso la ragion di Stato ha prevalso. Obama è stato un presidente attivista su molti fronti. Solo nell’ultimo anno ha fatto esplicitamente campagna contro la rielezione di Benjamin Netanyahu in Israele, contro la Brexit in Gran Bretagna, per il Sì nel referendum italiano, con interventi a gamba tesa, quasi sfacciati tanto erano espliciti. Gli è andata male su tutti i fronti. Oggi l’Ue è meno coesa, la sinistra europea, non solo quella italiana, perde consensi. La crisi della grande immigrazione dall’Africa la sta travolgendo. Ed è una crisi che, almeno indirettamente, è stata causata dalla politica di Obama, oltre che dalla mala gestione europea.
Proprio su questo punto, è bene distinguere quelli che sono gli errori di Obama dalle pecche che gli vengono attribuite troppo facilmente da una stampa e da un’opinione pubblica deluse dai suoi magri risultati. Non è vero che le primavere arabe siano state architettate da Obama. E’ però vero che sono state ispirate dalle sue parole al Cairo, nel suo discorso del giugno 2009, il vero manifesto (ormai è un testamento) della sua politica estera nel Medio Oriente e Nord Africa. Il proposito di Obama era quello di separare l’islam dall’estremismo, incoraggiando una via islamica alla democrazia, allo Stato di diritto e alla libertà di religione. Il Medio Oriente di oggi è l’opposto di quello auspicato da Obama otto anni fa: meno libertà di religione (anche lì dove era riconosciuta), più conflitti, meno democrazia, una diffusione a macchia d’olio dell’estremismo, con la nascita e la crescita dello Stato Islamico, nuova minaccia globale caratterizzata da un livello di violenza senza precedenti.
Gli Stati Uniti hanno incoraggiato la detronizzazione del presidente egiziano Hosni Moubarak (minacciando la sospensione di tutti gli aiuti militari), alleato fedele degli Usa e sostenuto apertamente l’ascesa del partito Libertà e Giustizia, diretta emanazione dei Fratelli Musulmani. L’Egitto, se non fosse stato per la provvidenziale insurrezione dei laici (finita con il golpe bianco del generale Al Sisi) era indirizzato sulla via del totalitarismo religioso. Obama non ha appoggiato l’insurrezione siriana contro Assad. E’ intervenuto solo in un secondo momento, quando la resistenza al dittatore era ormai dominata da gruppi jihadisti, quando l’Isis muoveva i primi passi. Con la sua minaccia di intervento, poi neppure rispettata, con l’assegno in bianco consegnato a Turchia, Qatar e Arabia Saudita per appoggiare gli insorti, Obama è riuscito a ottenere la botte vuota e la moglie ubriaca: gli Usa si sono auto-esclusi dal ruolo possibile di mediatori imparziali e le loro armi sono finite, volenti o nolenti, nelle mani dei peggiori gruppi jihadisti. La Siria ha finito per contagiare l’Iraq, frettolosamente abbandonato dagli Stati Uniti dalla fine del 2011. E nel giro di poco tempo, nell’estate del 2014, anche l’Iraq è diventato uno Stato fallito, spaccato in tre, con una regione settentrionale dominata dallo Stato Islamico. La Siria e l’Iraq si sono trasformate in terre di violenza e persecuzione dei cristiani, punto di origine della fuga di milioni di uomini verso Libano, Giordania, Turchia ed Europa. In Libia, Obama ha sostenuto lo sforzo di Francia e Gran Bretagna per rovesciare Gheddafi, ha reso possibile il conflitto. Poi ha abbandonato il paese in mezzo al guado e in preda all’anarchia. Infine, continua a proteggere un governo di Tripoli pesantemente infiltrato da gruppi estremisti islamici, la cui legittimità è quantomeno dubbia e la cui tenuta appare sempre più illusoria. E’ proprio in Libia, dove un ambasciatore americano è stato impunemente assassinato nel 2012, che si sono spalancate le porte per la rotta mediterranea della tratta di esseri umani, quella che riguarda direttamente il nostro paese.
Nelle primavere arabe, Obama vantava almeno un successo: lo Yemen, con la sua pacifica transizione di potere. Illusorio anche quello, considerando che, dal 2014, il paese è sprofondato di nuovo nella guerra civile. Vanta tuttora il successo ottenuto con l’accordo sul nucleare iraniano. Ma anche quello rischia di dare il via a una nuova corsa agli armamenti atomici nel Golfo, perché Arabia Saudita e Israele non sono affatto rassicurati dalle promesse iraniane di interrompere il programma militare. Sin dai tempi del discorso del Cairo, ancor prima dalla campagna elettorale, il presidente democratico aveva promesso di raggiungere l’obiettivo dei “due popoli in due Stati” per Israele e Palestina. La sua ostilità manifesta nei confronti dei governi conservatori israeliani, però, non è servita a rassicurare gli interlocutori arabi e, al tempo stesso, ha alienato la simpatia tradizionale di Israele per gli Stati Uniti.
I disastri dell’amministrazione Obama in Medio Oriente condizionano e condizioneranno ancora la stabilità dell’Europa, tramite la crisi dell’emigrazione che hanno prodotto. Ma non sono i soli. Lo stesso modello (forza nelle parole, debolezza nell’azione) è stato applicato anche alla questione ucraina. A parole, gli Stati Uniti di Obama, sono stati al fianco della rivoluzione di Kiev contro il presidente filo-russo Yanukovich. E in questo modo, Obama si è auto-escluso da ogni possibile ruolo di mediatore imparziale. Ma nei fatti, la stessa amministrazione non ha fatto nulla per garantire l’inviolabilità dei confini ucraini (di cui gli Usa sono garanti sin dal 1994) una volta che è arrivata la prevedibile rappresaglia russa. Oggi ci lascia in eredità un’Europa che ricorda, molto da vicino, quella della Guerra Fredda. Eppure quella di Obama era stata inaugurata e salutata come l’amministrazione del “reset e restart” con Mosca, dopo le tensioni fra Bush e Putin. In Asia, lo scacchiere che più di ogni altro interessava il governo democratico, la Cina è più forte e aggressiva che mai, nel mar Cinese Meridionale pianta basi che minacciano la libertà di navigazione e lancia intimidazioni militari al Giappone. La Corea del Nord, lungi dall’essere disarmata, è ora una potenza nucleare governata da un dittatore tanto giovane quanto instabile. E nelle Filippine è asceso un presidente che parla come un sanguinario e ostenta la sua vicinanza a Pechino.
Sono tante le bombe ad orologeria che Obama lascia in eredità a noi e al suo successore. Troppe per elencarle tutte.