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Le sette maternità surrogate di Ria. Barbarie normalizzata

Negli ultimi otto anni l’inglese Ria Pawlow è stata impegnata a mettere al mondo figli per altri: per marzo attende la nascita del settimo “lodger” (inquilino), come lei chiama i bambini partoriti attraverso l’utero in affitto. La sua storia viene usata per normalizzare tale pratica, ma in realtà contiene molti aspetti che ne ricordano la portata malvagia.

Vita e bioetica 06_01_2021

La normalizzazione della pratica dell’utero in affitto passa, un po’ come avviene sui versanti dell’eutanasia e del suicidio assistito, dalla narrazione di storie. Vicende che i media enfatizzano pur essendo molto particolari e, quindi, in nessun modo rappresentative né generalizzabili. Rientra in questo filone di casi singoli eppure utili ad una campagna di normalizzazione dell’utero in affitto quello dell’inglese Ria Pawlow, 40 anni, la quale ha una storia decisamente eccezionale dato che, a marzo, partorirà il settimo figlio. Surrogato.

Già, perché pur avendo tre figli - Matthew e Charlie, avuti da una precedente relazione, e Toby, nato grazie ad un donatore di sperma quando stava con l’attuale partner, Stacey, una donna - la signora ha sostanzialmente passato gli ultimi otto anni della sua esistenza a mettere al mondo figli per altri. Un impegno che l’interessata sembra vivere con singolare entusiasmo. «Amo partorire e rendere felici le famiglie», sono le sue parole, «un giorno smetterò, ma intanto continuo in questa mia opera». Da parte loro, da alcuni anni i giornali inglesi - dal Daily Mail al Mirror fino, recentemente, al Times - fanno un po’ a turno, dandosi il cambio, nel raccontare e ripresentare questa «surrogate supermum» la quale sembra confutare l’idea che la maternità surrogata altruistica, dopotutto, non possa esistere davvero.

In effetti, la vicenda della Pawlow ha tutti gli ingredienti emotivi utili ad una narrazione positiva della maternità surrogata: lei mette al mondo i figli per coppie impossibilitate ad averne, dice di farlo gratis, è molto contenta di questo suo «servizio» e, dulcis in fundo, la donna si fa pure tatuare sulla schiena una stella per ogni neonato che partorisce. Tutto molto bello, almeno apparentemente. Basta infatti approfondire appena la storia di questa mamma surrogata - la cui passione per la gravidanza fine a sé stessa pare già aver qualcosa di patologico - che emergono aspetti ben meno lieti, se non proprio inquietanti. Per brevità, ci limitiamo ad elencarne cinque.

Il primo riguarda un episodio assai doloroso capitato a Pawlow nell’ambito della sua «professione»: un aborto spontaneo. Anche quando però le gravidanze sono state portate a termine, secondo aspetto poco felice, non tutto è andato sempre liscio; per esempio, nel 2015 si è sfiorata la tragedia, con il parto di due bambini nati prematuramente sul pavimento del bagno di casa della donna. In terzo luogo, colpisce il modo con cui la Pawlow, nelle interviste, chiama i figli che porta in grembo, ossia «lodgers», traducibile come inquilini, scelta che ha tutto il sapore di un tentativo di negare il dramma dell’utero in affitto di cui essa stessa è protagonista.

Una quarta considerazione, strettamente collegata alla precedente, riguarda poi le già citate interviste che questa mamma surrogata ogni tanto rilascia; leggendole, è difficile non notare come la donna finisca sempre con il parlare delle famiglie che «rende felici», ma quasi mai dei figli messi al mondo, sbrigativamente liquidati, appunto, come «lodgers». Sembra insomma che lo sbandierato amore per il parto di Ria Pawlow altro non sia che un modo per celare strategicamente dell’altro, che si fa di tutto per nascondere.

Infine, quinto punto, va sottolineato che, se è vero che la donna rivendica di fare tutto ciò che fa - non senza rischi per la sua salute, come prova ciò che le è già capitato - come gratuito, bisognerebbe intendersi bene sul concetto di gratuità. Sì, perché è vero che, dal lontano 1985, nel Regno Unito la maternità surrogata è ammessa solo se altruistica; il punto è però che, da quelle parti, una donna che offra il proprio grembo conto terzi può richiedere fino a 15.000 sterline di rimborsi spese, somma che - assicurano femministe come Julie Bindel - equivale allo stipendio annuale per molte donne con un lavoro a bassa retribuzione.

Dal momento che, da quanto è dato capire, la signora Pawlow non è esattamente milionaria, ecco che la favola della mamma surrogata libera, felice ed entusiasta crolla sotto i colpi di riscontri che smascherano l’orrore di un utero in affitto che, anche quando viene ben celato, alla fine riemerge. E non potrebbe, d’altra parte, che essere così dato che, come la morale più elementare ci ricorda, possono esistere tanti modi per fare del bene, ma non esiste nessuna via per fare bene il male; e si dà il caso che l’utero in affitto sia indiscutibilmente una pratica malvagia, che mercifica i figli e umilia la dignità femminile, di cui a parole si riempiono da tempo la bocca in tanti, probabilmente in troppi.