Le sanzioni non stanno fermando la Russia
Le sanzioni economiche occidentali non hanno fermato affatto la Russia. Nonostante il crollo del rublo e del prezzo del petrolio, Putin continua a fornire il suo sostegno ai pro-russi dell'Ucraina orientale, consentendo loro di passare all'offensiva. Fallita la mediazione a Minsk, la Nato non intende intervenire.
Neppure le sanzioni occidentali, il crollo del prezzo del petrolio e delle quotazioni del rublo che mandano a fondo l’economia russa sembrano indurre il Cremlino a cedere sul fronte ucraino dove le milizie filo Mosca del Donbass sono invece all’offensiva su diversi fronti.
Negli ultimi dieci giorni gli attacchi dei filorussi hanno costretto le forze ucraine a ritirarsi da gran parte delle postazioni tenute intorno all’aeroporto di Donetsk, postazione strategica anche se completamente distrutta dal fuoco delle artiglierie, che consente ai governativi di tenere sotto tiro la capitale dei secessionisti e a questi ultimi di consolidare le difese intorno al centro abitato.
Gli stessi filorussi hanno annunciato l’inizio delle operazioni per la conquista di Mariupol, sul Mare d’Azov le cui coste sono in parte presidiate (e minate?) dagli ucraini per prevenire eventuali sbarchi di marines russi della Flotta del Mar Nero. Il ruolo strategico rivestito da Mariupol è molto rilevante. Mantenendone il controllo, le forze di Kiev (affiancate da contractors statunitensi “intercettati” da un ‘emittente televisiva nei giorni scorsi) lasciano i secessionisti ancorati al confine russo impedendo alla Repubblica Popolare di Donetsk di ampliarsi verso i territori meridionali abitati da ucraini russofoni che in gran parte hanno da sempre il doppio passaporto.
Al contrario, la conquista di Mariupol consentirebbe ai filorussi di dilagare verso sud e di costituire una continuità territoriale con la Crimea annessa alla Federazione Russa. La vittoria sul fronte meridionale costituirebbe la base militare importante per l’annessione a Mosca di tutta la fascia sud orientale dell’Ucraina. L’obiettivo dei secessionisti sembra essere innanzitutto la riconquista dei territori perduti la primavera scorsa con l’avvio della Ato (Anti Terrorism Operation) come è stata battezzata da Kiev.
I negoziati per ristabilire la tregua mediati dall’Osce a Minsk non sembrano portare a risultati concreti e i separatisti hanno minacciato di proseguire la loro offensiva. "In caso di fallimento dei negoziati e di proseguimento dei lanci di razzi contro le città ci riserviamo il diritto di proseguire l'offensiva fino alla liberazione totale delle repubbliche di Donetsk e Lugansk" dalle truppe ucraine, si legge in un comunicato. Se è così troveranno presto conferma le indiscrezioni di una prossima manovra d’attacco verso Slavyansk in un conflitto che ha ormai provocato un milione di profughi (per lo più sfollati in Russia) e oltre 5 mila morti. I caduti solo nelle ultimi dieci giorni sarebbero non meno di 300 dei quali almeno 50 civili considerando le vittime del bombardamento ucraino a una fermata dell’autobus a Donetsk e quelli provocati il 24 gennaio dai razzi dei separatisti su Mariupol.
I successi della “Novorossia” sarebbero legati al massiccio afflusso di forze russe denunciato da Kiev e dalla NATO ma sempre smentito da Mosca che invita a “presentare prove” che documentino tale presenza. Probabile che i russi si limitino a fornire alla causa della “Nuova Russia” un supporto di artiglieria e in termini di munizioni e truppe combattenti con uniformi non regolari, come hanno già fatto in passato in Crimea e nel Donbass, con un contributo poco visibile ma sostanziale contro un avversario molto debole come l’esercito e la Guardia Nazionale ucraina.
Se pare esagerato definire “invasione” l’intervento militare russo al fianco dei separatisti (anche perché si tratta di forze che restano solo pochi giorni nel Donbass e tornano oltre confine una volta terminate le operazioni) non è neppure credibile quanto annunciato l’estate scorsa dal presidente della repubblica Popolare di Donetsk, Alexander Zakharchenko, circa il fatto che militari russi vengano a combattere in Donbass come puri volontari, prendendo le ferie dall’esercito di Mosca.
Nonostante le crescenti difficoltà economiche e il montare delle sanzioni, Vladimir Putin non sembra voler cedere probabilmente perché è consapevole della debolezza di Kiev e del fatto che la Nato non manderà mai i suoi soldati a morire nel Donbass. "Invitiamo la Russia a fermare immediatamente il suo sostegno ai separatisti, in modo da cessare di destabilizzare l'Ucraina e di rispettare i suoi impegni internazionali" ha detto ieri il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg rispondendo alle accuse di Putin che aveva definito l’esercito ucraino "la legione straniera" della Nato. In effetti i “volontari” stranieri che combattono con Kiev sono sempre di più e del resto sono stranieri anche tre ministri del nuovo governo ucraino la cui limitata sovranità rispetto agli Stati Uniti è un dato di fatto.
Sul piano militare le forze ucraine sono peraltro divise al loro interno. L’esercito è in pessime condizioni, la Guardia Nazionale è composta per lo più da forze prive di addestramento mentre i reparti “irregolari” dei nazionalisti del “Pravyi Sektor” accusano il governo di Kiev di aver tradito dell’unità nazionale negoziando con i separatisti. Combattono con accanimento ma hanno poche munizioni, pochi uomini e pochissimo carburante. Per Kiev il problema è anche finanziario come dimostrano anche i 2 miliardi di dollari accordati ieri da Washington per pagare pensioni e stipendi pubblici. Come ha reso noto il governo la guerra costa 7 milioni di dollari al giorno: troppi per un Paese che ha le paghe più basse d’Europa (80 euro al mese secondo una recente inchiesta) e prevede quest’anno un crollo ulteriore del Pil di oltre il 4%.
La Nato si limita a fornire aiuti militari, ma non armamenti (secondo fonti russe sarebbero in arrivo a Kiev camion blindati ed equipaggiamenti americani ritirati dall’Afghanistan) e del resto ci vorrebbe molto denaro per gestire e impiegare armi nuove e sofisticate. I singoli Stati qualche aiuto lo offrono. I contractors pagati da Washington sembrano avere il duplice compito di dare una mano agli ucraini e riferire all’ambasciata Usa a Kiev gli sviluppi sul campo di battaglia.
Armi potrebbero arrivare presto da Varsavia che ha già fornito carburante ai governativi ucraini. "Non c'è alcun ostacolo a che l'industria militare polacca possa vendere armi all'Ucraina" ha detto ieri il ministro di Difesa polacco, Tomasz Siemoniak auspicando una maggiore collaborazione fra la Nato e Ucraina.
Nonostante le pressioni dei partner orientali, tradizionalmente intimoriti da Mosca, l’Alleanza Atlantica non sembra però intenzionata a mettere proprie forze in campo sul territorio ucraino. Per questo la Nato rischia di apparire un cane che abbaia ma non morde, anche in virtù degli interessi di molti Paesi occidentali membri anche della Ue di veder ripartire al più presto i floridi commerci con la Russia bloccati dalle sanzioni.