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BOKO HARAM

Le ragazze di Chibok, prigioniere della loro fama

82 delle 276 studentesse nigeriane rapite a Chibok, il 15 aprile 2014, sono state liberate dai jihadisti Boko Haram, in uno scambio di prigionieri. Ma la loro non sarà vera libertà: saranno sorvegliate a vista dalla polizia, quasi in carcere. Perché sono diventate troppo famose e quindi troppo esposte al terrorismo.

Esteri 09_05_2017
La campagna per la liberazione delle ragazze di Chibok

Il 6 maggio 82 delle 276 studentesse nigeriane rapite a Chibok, nei dormitori della loro scuola, nella notte del 15 aprile 2014 sono state liberate dai jihadisti Boko Haram grazie alla mediazione del governo svizzero, del Comitato Internazionale della Croce Rossa e di alcune organizzazioni non governative. In cambio il governo della Nigeria ha acconsentito a scarcerare alcuni terroristi detenuti, forse cinque.

Altre 21 ragazze erano state liberate lo scorso ottobre, anche loro in seguito alla mediazione svizzera e della Croce Rossa internazionale, qualcuna era stata ritrovata casualmente nel corso degli anni, circa 50 erano riuscite a fuggire la notte stessa del sequestro. Nelle mani di Boko Haram restano 113 ragazze. Si teme che alcune siano morte di stenti, violenze e malattie. Altre, le più piccole, potrebbero far parte delle oltre 100 bambine e adolescenti che secondo l’Unicef sono state usate da Boko Haram negli ultimi tre anni per compiere attentati dinamitardi suicidi nei mercati e in altri luoghi affollati delle città del nord est. Gli ultimi quattro attentati sono stati messi a segno il 26 aprile a Maiduguri, la capitale dello stato del Borno, e nella notte tra il 3 e il 4 maggio le forze di sicurezza hanno ucciso tre ragazzine che stavano per farsi esplodere a un posto di blocco militare nella stessa città.

Si sa che le 82 studentesse scambiate con i jihadisti, una volta consegnate alle autorità nigeriane, sono state dapprima trasportate in una base militare al confine con il Camerun dove dei medici le hanno visitate. Poi, nella notte, un convoglio le ha scortate via terra fino alla capitale Abuja. Lì, domenica mattina, il presidente Muhammadu Buhari le ha incontrate brevemente ritardando di alcune ore la partenza per Londra dove lo attende l’equipe medica che già nei mesi scorsi si è presa cura di lui. 

Il presidente Buhari è infatti da tempo molto ammalato, tanto da mancare a diversi appuntamenti politici importanti. È partito lasciando il governo nelle mani del suo vice e non si sa quanto durerà la sua assenza. L’eventualità di un vuoto di potere, se le sue condizioni dovessero aggravarsi, è vista con estrema preoccupazione perchè la Nigeria è entrata per la prima volta in recessione nel 2016, colpita da una crisi economica senza precedenti. Inoltre è uno dei tre paesi africani che il mese scorso hanno dichiarato la stato di carestia. L’emergenza riguarda cinque milioni di persone nelle regioni del nord est devastate dai jihadisti, soprattutto il Borno, lo stato in cui si trova Chibok e in cui i Boko Haram continuano a compiere attentati anche dopo essere stati costretti ad abbandonare le città e i territori che tre anni fa avevano dichiarato Stato Islamico, affiliato all’Isis.       

La liberazione delle ragazze di Chibok capita dunque in un momento drammatico per il paese e si capisce come mai il loro ritorno a casa non sia stato accolto con grandi festeggiamenti. Peraltro molto probabilmente il loro non è un ritorno a casa. I parenti nei prossimi giorni le raggiungeranno ad Abuja per riabbracciarle, ma poi dovranno tornare a Chibok da soli lasciandole alla custodia degli agenti incaricati di proteggerle. È quanto è successo alle 21 studentesse liberate a ottobre. Il presidente Buhari aveva incontrato anche loro e aveva garantito ai genitori che il governo avrebbe provveduto al loro reinserimento sociale: “Dopo averle salvate – aveva detto – ci assumiamo la responsabilità che possano realizzare tutti i loro traguardi e i loro obiettivi personali, educativi e professionali. Ovviamente potranno tornare a scuola e continuare gli studi. Saremo al loro fianco a ogni passo del loro cammino”.  

Finora la promessa è stata mantenuta. Le studentesse studiano, imparano l’inglese, possono comunicare con le famiglie due volte alla settimana, ma da allora vivono quasi recluse, lontano da casa. Solo a Natale sono tornate per qualche giorno a Chibok, ospitate da un parlamentare locale, e hanno potuto trascorrere con i genitori alcune ore sotto la sorveglianza degli agenti di custodia che hanno il compito di non perderle d’occhio e di impedire che vengano avvicinate da dei maleintenzionati. 

A Chibok non torneranno, non finchè Boko Haram rappresenterà una minaccia perchè a Chibok sarebbe troppo difficile proteggerle dai jihadisti. “Troppo famose per poter vivere libere e al sicuro” spiega la scrittrice nigeriana Adaobi Nwaubani. La campagna mondiale lanciata nel 2014 per la loro liberazione, con l’hashtag “BringBackOurGirl” (ridateci le nostre ragazze) rilanciato da centinaia di migliaia di persone, tra cui personalità famose come Papa Francesco, Michelle Obama, l’allora premier britannico David Cameron e consorte, non è valsa a liberare le studentesse e in compenso – sostiene Adaobi Nwaubani – le ha rese famose e preziose agli occhi dei jihadisti. “Ma le abbiamo già liberate – era stata l’arrogante risposta del loro leader, Abubakar Shekau – erano cristiane e adesso si sono convertite all’Islam”. Riuscire a colpirne una dopo averla liberata, ucciderla, sequestrarla di nuovo sarebbe uno smacco, un affronto per il governo nigeriano e per tutta la comunità internazionale, dice la scrittrice: “ci pensino, i filantropi internazionali, prima di lanciare la prossima campagna umanitaria”.