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EDITORIALE

Le purghe staliniane versione Renzi

La doppia epurazione alla Commissione Affari Costituzionali del Senato prima di Mario Mauro poi di Corradino Mineo, rei di non condividere il progetto di riforma costituzionale del premier, è una grave violazione dei princìpi sanciti dalla Costituzione.

Editoriali 13_06_2014
Matteo Renzi

Accusavano Grillo di essere un dittatore che, attraverso finte votazioni in Rete, decideva in solitudine le espulsioni dei dissidenti. Definivano Berlusconi un duce che gestiva il suo partito come un’azienda e selezionava la classe dirigente sulla base di criteri estranei al merito. Probabilmente c’è molto di vero in entrambe quelle critiche, ma ora i democratici si ritrovano in casa un esempio forse inarrivabile di stalinismo e per anni si sono illusi che attraverso primarie, sondaggi tra gli iscritti, congressi e riunioni, potessero dare lezioni di pluralismo e democraticità ai loro avversari.

Quello che è accaduto ieri ricorda tanto le purghe staliniane e lascia intuire di che pasta è fatto il premier. Nel Partito Democratico ormai è impossibile dissentire. Chi lo fa, chi tenta di sottrarsi all’unanimismo asfittico che si è creato attorno al segretario viene subito emarginato.

Non importa se, per ottenere l’obiettivo di cambiare la Costituzione a tutti i costi, cioè di trasformare il Senato in Camera delle autonomie, il premier rischia di violare uno degli articoli più importanti della Costituzione stessa, vale a dire il numero 67, che vieta il vincolo di mandato, stabilisce il divieto di mandato imperativo, per cui nessun parlamentare può essere costretto a votare in un certo modo nell’esercizio della sua funzione di parlamentare. Tale principio è un cardine imprescindibile della democrazia rappresentativa e scardinarlo significa minare alla radice il concetto di autonomia dei parlamentari, che devono essere giudicati solo dai loro elettori al termine del mandato, non da un Presidente del Consiglio che è anche segretario del suo partito.

Nei giorni scorsi, grazie a un accordo neppure troppo nascosto tra Casini e il premier, era stato rimosso dalla Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama il senatore Mario Mauro, sostituito con Lucio Romano, molto più indulgente nei confronti di Renzi. In quell’occasione, Vannino Chiti, esponente del Pd ed ex ministro delle Riforme, che ha peraltro presentato un ddl alternativo a quello del governo, commentò: «La rimozione del senatore Mauro dalla commissione Affari Costituzionali lascia sconcertati. Sono messe in discussione autonomia e responsabilità del ruolo dei parlamentari sancite dalla Costituzione. Ci si sta mettendo su una brutta strada: non è quella da seguire per fare una buona riforma costituzionale».

Ed è stato buon profeta, perché ieri lui e altri tredici senatori Pd si sono autosospesi dal gruppo parlamentare in seguito all’allontanamento di Corradino Mineo dalla commissione Affari Costituzionali del Senato. Mineo da tempo aveva manifestato perplessità nei confronti dell’Italicum, la legge elettorale concordata da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi nel famoso Patto del Nazareno e, nella discussione sulla riforma del Senato, aveva preso posizione in favore della linea Chiti, alternativa a quella del premier. Ora la minoranza del Pd, che fa capo a Civati e alla quale aderiscono i 14 senatori che si sono autosospesi, chiede chiarimenti al capogruppo Pd al Senato, Zanda, e denuncia «una gravissima epurazione delle idee non ortodosse», preannunciando altre iniziative.

L’assemblea del Pd, prevista per sabato, e che dovrebbe portare all’elezione del nuovo Presidente del partito (Orfini? De Micheli? Addirittura Prodi?), rischia di diventare una resa dei conti tra le diverse anime. Peraltro il Premier, che raccolse 169 voti a Palazzo Madama il giorno della fiducia al suo governo e che ha bisogno di almeno 161 voti per governare, rischia di ritrovarsi una pattuglia di 14 dissidenti. Senza i loro voti non avrebbe più la maggioranza e sarebbe sotto di sei voti. Dovrebbe in tal caso cercare sponde in altri gruppi, pescare qualche new entry tra i grillini più tiepidi e rafforzare l’asse sulle riforme con Forza Italia.

Non è forse un caso che la prossima settimana, con ogni probabilità, Renzi e Berlusconi torneranno a incontrarsi per cercare la quadra sulle riforme. L’Italicum è diventato indigeribile per il leader del centrodestra, che chiede anche un Senato elettivo e non una Camera delle autonomie che diventi un “dopolavoro per i sindaci”. Renzi annunciò che senza il superamento del bicameralismo e l’introduzione di un Senato non elettivo avrebbe lasciato la politica. Ne fece una questione di principio. Sarà ancora di questa idea, considerato che difficilmente questa legislatura potrà produrre le riforme epocali da lui promesse?