Le laude di Iacopone e la nascita dell'uomo nuovo
Insieme a san Francesco d’Assisi, Iacopone da Todi fu uno dei primi autori della letteratura italiana, probabilmente il maggiore del Duecento nell’ambito della poesia religiosa. Il suo laudario è il più importante che sia stato tramandato, almeno tra quelli che sono da attribuirsi a una sola persona.
Insieme a san Francesco d’Assisi, Iacopone da Todi fu uno dei primi autori della letteratura italiana, probabilmente il maggiore del Duecento nell’ambito della poesia religiosa. Nato nella cittadina umbra tra il 1230 e il 1236, divenuto notaio, come indica l’appellativo di “ser” che accompagna il suo nome, si sposò probabilmente nel 1267. Dopo un solo anno di matrimonio accade il fatto che avrebbe modificato tutta la sua esistenza: ad una festa, ceduto il pavimento, la moglie cadde nel piano di sotto e morì. Solo allora Iacopone scoprì la penitenza che lei sosteneva indossando un cilicio sotto il vestito. Il cambiamento del notaio fu allora radicale.
La sua conversione si tradusse nell’adesione all’ordine francescano spirituale, più rigoroso rispetto ai conventuali che erano orientati ad un’attenuazione della povertà assoluta prospettata nella regola francescana. Imprigionato da Papa Bonifacio VIII, venne scarcerato solo alla sua morte nel 1303 e morì tre anni più tardi. Il suo laudario è il più importante che sia stato tramandato, almeno tra quelli che sono da attribuirsi a una sola persona. Simili alle ballate per schema metrico, perché costituite da stanze e da un ritornello, spesso musicate, le laude sono, a differenza di quelle, dedicate ad argomenti religiosi. Talvolta, vengono rappresentate nelle piazze o lungo le vie in particolari celebrazioni e vengono allora definite drammatiche.
La più conosciuta tra le laude drammatiche è Donna de Paradiso che vede come protagonisti la Madonna, san Giovanni Evangelista, il messaggero e il popolo. Nelle trentatré strofe (che simbolicamente richiamano gli anni di Cristo) sono ripercorsi i momenti salienti della passione. Esattamente al centro della lauda (tra la XVI e la XVIII strofa) è collocata la descrizione della crocefissione. Oggi può forse infastidire la rappresentazione della passione di Cristo in Donna de Paradiso di Iacopone da Todi. Il mondo accetta più volentieri l’idea di un Dio lontano o di un Dio che sia diventato presenza in mezzo a noi senza, però, aver sofferto pienamente. Un Dio disincarnato ci rende molto meno responsabili per la croce che noi gli abbiamo fatto soffrire e per gli atteggiamenti che oggi assumiamo, meno responsabili di fronte alla croce che noi dovremmo portare e offrire sull’esempio di Gesù. La drammaticità e il pathos raggiungono vertici tali da essere con fatica tollerati dall’umano sguardo.
Uno dei maggiori meriti di questa lauda è quello di averci presentato Cristo anche come vero uomo, che ha sofferto pienamente l’ignominia dell’ingratitudine umana e il dolore della croce. L’umanità di Gesù rifulge, qui, ancor più nella sofferenza della madre che assiste con indicibile dolore al suo calvario e che con strazio esclama: «Figlio, l’alma t’è ’scita,/ figlio de la smarrita,/ figlio de la sparita,/ figlio attossecato!// Figlio bianco e vermiglio,/ figlio senza simiglio,/ figlio, e a cui m’apiglio?/ Figlio, pur m’ài lassato!/ […] Figlio dolc’e e placente,/ figlio de la dolente,/ figlio, àte la gente/ mala mente trattato.// Ioanni, figlio novello,/ morto s’è ‘l tuo fratello./ Ora sento ‘l coltello/ che fo profitizzato.// Che moga figlio e mate/ d’una morte afferrate,/ trovarse abraccecate/ mat’e e figlio impiccato».
Un’altra stupenda lauda di Iacopone da Todi è “Amor de caritate”. Ivi l’autore scrive: «En Cristo nata nova creatura,/ spogliato lo vecchio om, fatto novello!/ Ma en tanto l'amor monta con ardura,/ lo cor par che sse fenda con coltello;/ mente con senno tolle tal calura,/ Cristo si me trae tutto, tanto è bello!». Tanto è l’ardore che il poeta sente per Cristo, come un innamorato di fronte alla propria amata, che arriva ad affermare: «Abràcciome con ello e per amor sì clamo:/ «Amor, cui tanto bramo, fan’me morir d'amore!»». Bellissimo è quest’ultimo verso in cui l’amore, divenuto «dono commosso di sé», desidera consumarsi tutto per amore. È una confessione di amore totale, imperitura, eterna: «Per te, Amor consumome languendo/ e vo stridenno per te abracciare;/ quando te parti, sì mogo vivendo,/ sospiro e plango per te retrovare;/ te retornando, ’l cor se va stendendo,/ ch’en te se pòzza tutto trasformare;/ donqua, plu non tardare, Amor, or me sovene,/ legato sì mme tene, consumese lo core!».
La bellezza del Cristo è testimoniata dalla promessa di novità per la nostra vita, dalla straordinaria corrispondenza con il nostro desiderio di felicità e di amore. Nell’esperienza di aver trovato una sorgente che inizi a dissetare la nostra arsura in mezzo al deserto del mondo siamo sorpresi per l’uomo nuovo che sta nascendo in noi. Di qui scaturisce il desiderio di seguire e conoscere sempre più in profondità il Maestro. Di qui sgorga la speranza per la nostra vita che, nella straordinaria notizia della resurrezione di Cristo, diventa certezza di eternità per noi e per i nostri cari.
Attribuita a Iacopone è anche la famosa sequenza in latino Stabat Mater musicata nei secoli, tra gli altri, da Scarlatti, Vivaldi, Pergolesi, Rossini, Dvorák. Le sentenze presentavano schemi metrici in rima e venivano cantate prima della lettura del Vangelo. Ancora una volta è protagonista la Madonna in questo componimento in latino in cui la Madre addolorata giace in lacrime ai piedi della croce, alla vista del supplizio del Figlio Gesù. Iacopone chiede alla Madonna di poter provare lo stesso dolore per poter piangere con lei e condividere la sofferenza. La implora: «Fac, ut ardeat cor meum/ in amando Christum Deum,/ ut sibi complaceam» ovvero «Fa’ che il mio cuore arda/ nell’amare Cristo Dio/ per fare cosa a lui gradita». Tanto è l’amore che prova per il Signore che Iacopone desidera portare le sofferenze del Cristo in croce e «avere parte alla sua passione».