Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
VERSO IL VOTO

Le larghe intese sono già nelle liste elettorali

La desistenza corre sul filo nelle ultime ore di composizione delle liste. Pd e Forza Italia, nella prospettiva di doversi alleare subito dopo il voto, hanno puntato a non farsi male e così in molti collegi si prospettano sfide dall’esito scontato.

Politica 30_01_2018

Guerre fratricide tra correnti, esclusioni eccellenti e candidature sorprendenti. Ieri alle 20 si sono chiusi i termini per la presentazione delle liste per le prossime elezioni politiche del 4 marzo e ancora una volta gli scontenti superano i soddisfatti. I partiti tradizionali, che tanto hanno criticato le “parlamentarie” grilline accusandole di scarsa democraticità e di aleatorietà nella selezione degli aspiranti deputati e senatori, finiscono per far prevalere ancora una volta le solite logiche: candidati calati dall’alto, spesso con problemi giudiziari e privi di competenze e di legami con i territori, premiati soltanto per la vicinanza ai capi partito o ai capi corrente. E gli ultimi sondaggi documentano la crescente disaffezione degli elettori dalla politica, con un numero di indecisi e di astenuti che alle prossime elezioni potrebbe crescere, in barba all’appello rivolto recentemente agli elettori dal Presidente della Repubblica.

La desistenza correva sul filo nelle ultime ore di composizione delle liste. Pd e Forza Italia, nella prospettiva di doversi alleare subito dopo il voto, hanno puntato a non farsi male e così in molti collegi si prospettano sfide dall’esito scontato. I dem non infieriscono quando, nell’uninominale, ci sono candidati di Forza Italia (e non di Lega, Fratelli d’Italia e Noi con l’Italia) e gli azzurri ricambiano, offrendo candidature ai propri alleati nei collegi destinati a finire al Pd. Con questa logica sono state composte le liste di quei due partiti. Di qui le fibrillazioni all’interno del Partito democratico e all’interno delle coalizioni. Nel Pd le minoranze di Andrea Orlando e Michele Emiliano sono già sul piede di guerra e hanno mal digerito l’esclusione dalla corsa per un seggio di molti loro uomini.

Matteo Renzi ha piazzato i suoi fedelissimi in quasi tutti i collegi sicuri, lasciando le briciole all’opposizione interna, che a questo punto, pur di disarcionarlo dopo il voto, punta alla sconfitta. E i sondaggi, peraltro, sembrano confermare questo trend con un Pd in caduta libera, che ormai oscilla tra il 22 e il 23%. Siluri al segretario dem ed ex premier arrivano da Enrico Letta, che profetizza l’abisso per i democratici, e dal sindaco di Milano, Beppe Sala, che esterna tutta la sua delusione per le liste, definendole prive di equilibrio. La conferma di Maria Elena Boschi, il ripescaggio di Piero Fassino, la candidatura di Pierferdinando Casini e la contestuale esclusione di molti parlamentari Pd che avevano manifestato opinioni anti-renziane la dice lunga sul clima incandescente che si è creato al Nazareno, con le minoranze interne pronte a chiedere la testa di Renzi o a promuovere una nuova scissione dopo quella dei bersaniani.

Ma il disegno dell’ex sindaco di Firenze è chiaro: ormai rassegnato all’idea di non essere il primo partito, punta a un’intesa con Berlusconi dopo il voto. Non potrebbe mai essere lui a guidare un governo Pd-Forza Italia e allora per sé punta a ottenere la Presidenza del Senato, seconda carica dello Stato in grado di condizionare gli equilibri in vista della problematica formazione di un esecutivo. Gli italiani però ricordano che Renzi avrebbe voluto abolire quel ramo del Parlamento, anzi aveva promesso il ritiro dalla politica qualora non ci fosse riuscito attraverso il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. 

Azzerare o quasi il dissenso interno per far eleggere a Roma una folta pattuglia di fedelissimi è il disegno che accomuna Renzi e Berlusconi. Anche quest’ultimo ha puntato anzitutto ad assicurare posti nel prossimo Parlamento a tutti quegli uscenti che sin qui non lo hanno tradito. Poi ha fatto inserire nelle liste, ma con scarsissime possibilità di riuscita, molti esordienti. Solo per quelli più fidati, tra cui l’ex amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, il seggio sarà garantito. Per gli altri ci sarà da sudare. D’altronde, l’importante è che alla Camera e al Senato, il giorno dopo il voto, ci sia un numero sufficiente di parlamentari Pd e Forza Italia in grado di formare un governo. Con l’aggiunta dei centristi di destra e di sinistra, che certamente appoggerebbero quell’esecutivo. Ecco perché i possibili eletti nelle file del Carroccio non sono ben visti ad Arcore: si metterebbero di traverso sulla strada di un governo bipartisan e potrebbero addirittura appoggiare un governo Cinque Stelle, pur di ostacolare un nuovo Patto del Nazareno. Sintomatica dell’aria che tira l’esclusione dalle liste del senatore Andrea Augello, che paga le posizioni anti-Boschi manifestate nella commissione parlamentare sulle banche.

La Lega candida Umberto Bossi e lancia Giulia Bongiorno quale candidato ideale al Ministero della Giustizia in un eventuale governo di centrodestra. I Cinque Stelle pescano nella società civile e candidano nell’uninominale personaggi esterni al Movimento. 

Tra i duelli più attesi nei collegi uninominali, dove ogni coalizione presenta un solo candidato e vince colui (o colei) che prende più voti, quello a Roma tra il premier uscente, Paolo Gentiloni e Angiolino Cirulli, l’imprenditore che ha perso i suoi risparmi nel crack di Banca Etruria e che correrà per i Cinque Stelle. Un successo di quest’ultimo potrebbe essere la definitiva spia del vento che cambia.