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POLITICA ESTERA

Le figuracce di Salvini? C'è ben di peggio

È ovvio che si rida della figuraccia rimediata da Salvini in Polonia, ma questo è solo l'ultimo episodio di una perdita totale di credibilità dell'Italia all'estero. Sull'Ucraina Draghi e Di Maio hanno subito di peggio. Ma questo accade perché dalla fine della Prima Repubblica l'Italia ha abbandonato la politica estera a se stessa.

Politica 10_03_2022
Matteo Salvini in Polonia

La pessima figura di Matteo Salvini in Polonia è solo l’ultimo episodio di una saga in cui l’Italia, fuori e dentro i confini nazionali, prende schiaffi da chiunque. Salvini è stato umiliato dal sindaco di una piccola città polacca, ai confini con l’Ucraina, che ha rifiutato di riceverlo sventolandogli sotto il naso la t-shirt con l’immagine di Putin che il leader della Lega aveva indossato un tempo. Certamente quel sindaco sarà stato imbeccato dal solito giornalista o fotografo italiano militante, secondo la squallida tradizione italiana per cui si va all’estero per combattere le battaglia politiche e personali nostrane. Ma ciò non toglie la sprovvedutezza con cui un leader della maggioranza di governo prepara una missione all’estero (anche la scelta di uno staff evidentemente incapace è sua responsabilità), pensando soprattutto alla sua immagine in patria e finendo per danneggiarla insieme a quella dell’Italia tutta.

Ma quello di Salvini, come dicevamo, è solo un episodio e certamente non il più grave, visto che la crisi in Ucraina ha fatto emergere con chiarezza lo stato comatoso della nostra credibilità politica all’estero. Ha cominciato colui che da noi è venerato come il Salvatore della Patria, il presidente del Consiglio Mario Draghi, sbertucciato prima da Mosca e poi da Kiev. Il 17 febbraio era stata annunciata con enfasi la sua missione a Mosca per favorire un incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente americano Joe Biden; Putin gli aveva fatto credere di essere disposto a riceverlo ma prima che Draghi potesse salire su un aereo alla volta di Mosca, le truppe russe erano già entrate in Ucraina il 24 febbraio. Ma non bastava l’umiliazione subita da Putin, Draghi se l’è cercata poche ore dopo anche con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: nel suo commosso discorso alla Camera per riferire dell'invasione dell'Ucraina, il presidente del Consiglio ha concluso dicendo che aveva un appuntamento telefonico con Zelensky alle 9.30 ma lui «non era più disponibile»: una frase infelice che sembrava suggerire una mancanza o uno sgarbo del presidente ucraino. Che infatti si è subito reso disponibile su twitter: «Oggi alle 10:30 agli ingressi di Chernihiv, Hostomel e Melitopol ci sono stati pesanti combattimenti. Le persone sono morte. La prossima volta cercherò di spostare l’agenda di guerra per parlare con Mario Draghi ad un’ora precisa».

E se Draghi, che pure un curriculum internazionale ce l’ha, viene trattato così, figuriamoci il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che nel suo curriculum può vantare al massimo le trasferte al seguito del Napoli. E infatti si è preso uno schiaffo pubblico dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. Dopo che, poche ore prima dell’invasione, Di Maio ha avuto la brillante idea di dichiarare che non ci sarebbero stati nuovi incontri con i vertici russi se prima non si fosse abbassata la tensione, Lavrov ha avuto buon gioco a dichiarare che quella di Di Maio è «una strana idea di diplomazia», che «è stata creata per risolvere situazioni di conflitto e alleviare la tensione, e non per viaggi a vuoto in giro per i Paesi e degustare piatti esotici a ricevimenti di gala». Non bastasse, Di Maio, una settimana fa in tv si è sentito in dovere di definire Putin «più atroce degli animali», una espressione indegna di un ministro degli Esteri a chiunque sia rivolta. Dimenticando fra l’altro che soltanto un anno prima aveva pubblicamente tessuto sperticati elogi del governo russo patrocinando l’arrivo di una equipe di medici russi per aiutare il nostro sistema sanitario nella lotta al Covid.

Ma tutto questo non accade a caso: con la fine della prima Repubblica, l’Italia è di fatto rimasta orfana della politica estera, ovvero di una visione chiara e coerente degli interessi dell’Italia in Europa e nel mondo, della sua collocazione e dei suoi compiti. Una visione che non riguarda soltanto i rapporti diplomatici con questo o quel paese, o di adesione a istituzioni sovranazionali, ma anche la sicurezza economica ed energetica nonché la difesa dei propri confini (ovviamente con il coordinamento con gli altri ministeri interessati). Invece abbiamo avuto una serie di ministri con una spiccata tendenza a seguire proprie idee o privilegiare le proprie amicizie internazionali, delegando sempre più i nostri interessi a una Unione Europea che pensa all’Italia più o meno con lo stesso rispetto dimostrato da Putin e Zelensky.

Persone competenti non sono mancate qua e là, ma in un contesto di improvvisazione dove la buona volontà doveva supplire alla mancanza di una visione globale. E le umiliazioni non sono certo mancate, basti pensare solo al contenzioso con l’India per la vicenda dei marò. Fino ad arrivare alla tragedia di questa legislatura, soprattutto dal governo Conte II, quando alla Farnesina è stato designato Luigi Di Maio, incredibilmente confermato da Draghi.

Cosa ci si può onestamente aspettare se a capo del ministero degli Esteri viene piazzata una persona totalmente inadeguata, senza alcuna esperienza né competenza né capacità? Il massimo che ci si può augurare è che non apra bocca. Ma una nomina del genere è anche il segnale che l’Italia rinuncia a fare politica estera, che si consegna ad interessi altrui. Un messaggio che è rinforzato dalla conferma agli Interni del ministro Luciana Lamorgese, che parimenti sta dimostrando la rinuncia dell’Italia a difendere i propri confini, ormai gestiti da Ong straniere riferimento di poteri non meglio identificati.

Magari il problema fossero le figuracce di Salvini.