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DIVORZIATI RISPOSATI

Le "amnesie" del cardinale Kasper

I due casi proposti al Concistoro per suggerire la possibilità di accesso alla comunione dei divorziati risposati legittimerebbero l'adulterio. Perché non ribaltare la questione e considerare invece la non ammissione ai sacramenti come tappa di un cammino penitenziale?

Ecclesia 09_03_2014
Il cardinale Walter Kasper

Il cardinale Walter Kasper dedica la sezione più lunga della sua relazione al Concistoro del 20 febbraio scorso al tema doloroso del fallimento dell’unione matrimoniale e alle prospettive pastorali verso le persone divorziate e risposate. In particolare presenta due casi ponendo ai suoi colleghi cardinali delle domande al fine di approfondire le soluzioni pastorali. L’ambito è così circoscritto.

Il primo caso è quello di una persona soggettivamente convinta che il matrimonio da cui proviene non è valido. Oggi il Diritto canonico stabilisce che la valutazione circa la validità o la nullità del matrimonio compete ai tribunali ecclesiastici. Perciò Kasper domanda: «Non sarebbero possibili altre procedure più pastorali e spirituali? In alternativa si potrebbe pensare che il vescovo possa affidare questo compito a un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale quale penitenziere o vicario episcopale».

Sotto questo profilo teoricamente è tutto possibile, perché – come rileva lo stesso cardinal Kasper – le procedure canoniche e i tribunali ecclesiastici non sono di istituzione divina, non sono di diritto divino, ma sono istituzioni umane, sono elaborate della Chiesa nel corso della sua esperienza e quindi possono tranquillamente mutare.

L’obiettivo è valutare la verità circa l’esistenza o meno di un sacramento, di un matrimonio tra due presunti coniugi. L’attuale procedura canonica prevede una stretta collaborazione tra molte figure processuali (ad es. il promotore di giustizia, il difensore del vincolo, gli avvocati di parte, i collegi giudicanti, i periti). Tale procedura e in particolare la condizione della duplice sentenza conforme, cioè il doppio grado di giudizio, quello di prima istanza e quello di appello, hanno lo scopo di garantire quanto più oggettivamente è possibile l’accertamento della verità del sacramento, di tutelare tutte le parti, il coniuge attore della causa e il coniuge convenuto. Potremo elaborare anche altri metodi di accertamento a condizione che consentano di raggiungere un grado di garantismo processuale pari o superiore all’attuale sistema, e a condizione che assicurino un’attenta ponderazione dei singoli casi.

Ora, affidare il giudizio circa la verità di un matrimonio a una singola persona, per quanto attenta, competente e pastoralmente preparata, mi sembra quanto mai imprudente data anche la posta in gioco. Quanti abbagli si prendono quando si è soli a giudicare. La prudenza pastorale plurisecolare infatti chiede un organo di giudizio collegiale e non monocratico.

Il secondo caso è quello più delicato, perciò riportiamo le stesse parole con le quali il cardinal Kasper pone la domanda: «Un divorziato risposato: 1. se si pente del suo fallimento nel primo matrimonio, 2. se ha chiarito gli obblighi del primo matrimonio, se è definitivamente escluso che torni indietro, 3. se non può abbandonare senza altre colpe gli impegni assunti con il nuovo matrimonio civile, 4. se però si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il secondo matrimonio a partire dalla fede e di educare i propri figli nella fede, 5. se ha desiderio dei sacramenti quale fonte di forza nella sua situazione, dobbiamo o possiamo negargli, dopo un tempo di nuovo orientamento (metanoia), il sacramento della penitenza e della comunione? Questa possibile via non sarebbe una soluzione generale».

Questo caso ricorda per alcuni passaggi un testo del magistero di Giovanni Paolo II. Si tratta dell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio, n. 84: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio. La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi».

Quindi, se i divorziati risposati sono nelle condizioni elencate da Kasper e se la condizione n. 4 consiste in quello che scrive Giovanni Paolo II cioè «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi», allora possono essere ammessi al sacramento della penitenza e a quello dell’eucaristia.

Ma se il cardinal Kasper ha posto la domanda per approfondire significa almeno che la condizione n. 4 non consiste in quello che scrive Giovanni Paolo II. Dobbiamo perciò pensare che il caso elaborato da Kasper tratti di persone divorziate risposate, che hanno motivi seri per continuare a convivere (ad esempio l’esistenza di figli minori) e che hanno tra loro rapporti coniugali.

Nell’Appendice II della relazione si citano molti testi patristici e si fa riferimento alla dottrina del peccato veniale. Ora è necessario fugare qualsiasi equivoco: un peccato può essere oggettivamente grave e soggettivamente veniale o perché l’avvertenza della mente non è piena (esempio, mancanza di lucidità non colpevole) o perché manca, in tutto o in parte, il deliberato consenso della volontà. In altri termini un atto disordinato, oggettivamente grave e quindi mortale, potrà essere peccato veniale per quei difetti soggettivi che riguardano l’intelligenza o la volontà di chi agisce. Ora nel nostro caso le due persone della coppia sanno perfettamente e vogliono lucidamente. Quindi, non si può parlare di peccato veniale. Inoltre, le cinque condizioni elencate nel caso non potranno cambiare la qualità morale del rapporto sessuale tra due persone non sposate, e tale qualità morale resta sempre adulterio.

Se la Chiesa decidesse di ammettere al sacramento della penitenza e a quello dell’eucaristia questi divorziati risposati, sarebbe ancora fedele al suo Signore che ha chiaramente condannato l’adulterio? E ha chiaramente insegnato l’indissolubilità del matrimonio?

Ma non possiamo piuttosto ribaltare la questione? E pensare: se una coppia di divorziati risposati, che hanno rapporti coniugali e che non riescono a vivere la piena continenza, non è ammessa ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, il fatto di non essere ammessa può essere vissuto come penitenza? La non ammissione ai sacramenti può essere proposta dalla Chiesa come una tappa del cammino penitenziale? Come un aspetto della metanoia a cui accenna anche il cardinal Kasper?

In fondo tutti i più recenti documenti del magistero invitano non solo al discernimento dei singoli casi, ma anche alla penitenza non sacramentale delle persone divorziate risposate. Si legga sempre Familiaris Consortio n. 84: «Con ferma fiducia la Chiesa crede che, anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità».

Nella storia plurisecolare della cristianità ci sono numerosi esempi di prassi penitenziali in ragione delle quali i penitenti non erano ammessi ai sacramenti proprio come segno esteriore della penitenza interiore. Non si tratta quindi di una forma di esclusione infamante, ma di un percorso di conformazione a Cristo che passa dalla rinuncia a un proprio modo di vedere i sacramenti al modo con cui Cristo pensa ai sacramenti. È questa la metanoia, il cambiamento di pensiero a cui tutti siamo chiamati. Questa è l’autentica conversione: pensare come Cristo, avere lo stesso pensiero di Cristo, la sua stessa mentalità e il suo stesso sguardo sulle persone e le creature.

Nell’Appendice II il cardinal Kasper cita sommariamente Agostino, La fede e le opere 19,35. Il testo è molto significativo perché ricorda una prassi negligente dei pastori nei confronti degli adulteri e anche un rischio tuttora reale: l’incidenza dell’adulterio in una popolazione aumenta quando non si rimprovera tale peccato, quando anzi lo si difende oppure quando lo si trascura: «Sembra che per i costumi dei cattivi cristiani, un tempo addirittura pessimi, non fosse un male il fatto che uomini sposassero la moglie di un altro o che donne sposassero il marito di un’altra, per questo forse si insinuò presso alcune chiese questa negligenza per cui nelle istruzioni ai richiedenti non si indagava né si riprovava su tali vizi. Così è avvenuto che si è incominciato anche a difenderli. Tali vizi tuttavia sono ancora rari nei battezzati, a meno che non li facciamo aumentare col trascurarli. Quella che alcuni chiamano negligenza, altri inesperienza, e altri ancora ignoranza, probabilmente è ciò che il Signore ha designato con il nome di sonno, dove dice: Ma mentre tutti dormivano venne il tuo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano [Mt 13,25]».

Infine, la vera questione non è tanto il dopo, cioè la patologia del matrimonio (per quanto sia drammatica e dolorosa), la vera soluzione è il prima, cioè la preparazione al sacramento e il radicamento della coppia nella fede, nella speranza, nell’amore divino e nel desiderio di santità reciproca.