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L'azzardo di Trump: una Hollywood no woke e anti mainstream

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L'annuncio di Trump di nominare Gibson, Stallone e Voight suoi ambasciatori a Hollywood non va preso come un'americanata. Anche San Tommaso insegna che la cultura non può sfuggire all'azione di governo.

Editoriali 18_01_2025

Notizia di colore? Non solo. Giovedì scorso Donald Trump ha annunciato sulla sua piattaforma Truth Social che nominerà Mel Gibson, Sylvester Stallone e Jon Voight suoi ambasciatori ad Hollywood. Ecco il post del futuro presidente: «È per me un onore annunciare che Jon Voight, Mel Gibson e Sylvester Stallone saranno ambasciatori speciali di un posto grandioso ma molto travagliato: Hollywood, in California. Saranno miei inviati speciali allo scopo di riportare Hollywood, che negli ultimi quattro anni ha perso molti affari a favore di Paesi stranieri, ad essere più grande, migliore e più forte che mai! Queste tre persone molto talentuose saranno i miei occhi e le mie orecchie e farò ciò che mi suggeriranno. Così come avverrà per gli stessi Stati Uniti d'America, ci sarà una nuova età dell’oro per Hollywood!».

Il lettore italiano, anzi europeo, potrebbe comprensibilmente liquidare la decisione di Trump come un’americanata. Un presidente degli Stati Uniti che s’inventa un’ambasciata ad Hollywood è una trovata assai bizzarra, propria di un certo spirito a stelle e strisce. Le polemiche negli USA naturalmente non sono mancate. La lettura più diffusa ed anche corretta è quella che vedrebbe Trump voler dare un giro di vite all’ambiente hollywoodiano dato che la maggior parte delle star non hanno mai nascosto la loro avversione per la sua persona.

E se questa stessa decisione fosse stata presa dal premier Meloni in merito a Cinecittà, l’Hollywood nostrana? Impensabile che possa avvenire, ma, in caso opposto, sarebbero piovute sull’esecutivo ferocissime critiche sull’intromissione del governo nella cultura italiana, sul commissariamento delle arti, sulla censura al libero pensiero e alla libertà di espressione, sull’egemonia della pseudocultura fascista, sulla volontà di usare il cinema come strumento di propaganda politica. Tutti dimentichi, tra l’altro, che Cinecittà fu voluta da Mussolini.

Da qui la domanda: Trump ha fatto bene o ha fatto male a nominare questi tre attori e registi come ambasciatori ad Hollywood? Non è una intromissione in un campo, quello culturale e di intrattenimento, da cui il governo dovrebbe rimanere fuori? Trump ha fatto bene perché, innanzitutto, la competenza del governo di un Paese abbraccia anche la cultura. Anzi, qualsiasi azione del governo, termine che in questo caso ricomprende anche il potere legislativo, interessa necessariamente sempre la cultura. Dall’innalzamento delle imposte alla modifica del Codice della strada, dalle norme che regolano l’immigrazione a quelle che disciplinano il nucleare, tutto fa cultura. In questa specifica prospettiva ogni Stato è inevitabilmente etico, nel bene e nel male.

La cultura, come l’intrattenimento che è espressione culturale anch’esso, non può sfuggire alle scelte governative perché chi ha in mano le redini di una nazione ha l’obbligo morale di condurre ad una vita virtuosa i propri cittadini. E la cultura contribuisce a rendere l’uomo migliore o peggiore. Sulla relazione tra governo e virtù personali leggiamo ciò che ha scritto Tommaso d’Aquino: «La legge umana intende portare gli uomini alla virtù» (Summa Theologiae, I-II, q. 96, a. 2, ad 2). Nulla di strano a ben pensarci. L’uomo ha il dovere di fare il bene. Il bene che deve ricercare l’uomo di governo è il bene della collettività. Ecco quindi che è suo onere creare quelle condizioni affinché il singolo e il consesso dei singoli (famiglie, associazioni, imprese, partiti politici, etc.) si orientino ad una vita virtuosa, stato di vita che permette di arrivare a Dio, fine ultimo a cui tutte le realtà, comprese quelle che governano uno Stato, devono essere ordinate. L’insieme di quelle condizioni che permettono di vivere una vita secondo la legge naturale prende il nome di bene comune (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 26).

Sebbene il salto sia notevole, torniamo dall’Aquinate a Trump. Anche la produzione di film deve rispettare la legge morale naturale, ossia deve contribuire a rendere virtuoso l’uomo. Se creare osservatori speciali da inviare ad Hollywood può contribuire a questo scopo ben venga. Ovviamente nel rispetto del principio di sussidiarietà. In altre parole il governo, ad esempio, potrebbe anche vietare la diffusione di alcune pellicole qualora fossero gravemente lesive del bene comune (pensiamo ad un film inneggiante la pedofilia), ma ordinariamente non potrebbe metter becco nella produzione di film, ossia nella scelta dei soggetti, delle sceneggiature, degli attori, etc... Controllo sì, sostituzione da parte del governo dei soggetti più competenti in materia no.

Chiaramente Trump è mosso prima di tutto da interessi politici: far sì che le spinte progressiste negli studios siano tamponate perché lesive della sua amministrazione. Ma, in questo caso, tale fine politico assai personale potrebbe tornare utile al cattolico. Infatti Mel Gibson è notoriamente cattolico. Sylvester Stallone, anche lui battezzato cattolico, nel 2000 rese noto il suo ritorno al cristianesimo e di recente ha dichiarato pubblicamente che è scampato ad un aborto. Jon Voight ha avuto una formazione cattolica, si è laureato alla Catholic University of America e parla spesso della sua fede. Di certo questi tre attori non sono dei santi, ma altrettanto certamente potranno spostare almeno di un poco l’ago della bilancia nell’ambiente hollywoodiano a favore di tematiche care alla cultura conservatrice: tutela della vita, della famiglia naturale, della libertà di pensiero e di religione, della patria, etc., lotta al politicamente corretto, all’anticultura woke, al mainstream massificante, etc...