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L'IO E LA CRISI DELLA MODERNITA'/9

L'avvento dell'homo sapiens technologicus

Il fine del sistema è diventato la produzione, quel saper fare che i Greci antichi chiamavano «tecnica». Il prassismo, il pragmatismo, la produzione hanno sostituito l’attenzione al significato, al valore, alla verità. La tecnologia ha gradualmente rimpiazzato la riflessione e la contemplazione.

Cultura 27_11_2016

Nella nostra epoca l’uomo svolge spesso inconsapevolmente la funzione di strumento e mezzo del sistema. Scrive Pirandello ne I quaderni di Serafino Gubbio operatore: «L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile, ma anche dannoso, s’è messo a fabbricare di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è divenuto servo e schiavo di esse. Viva la macchina che meccanizza la vita». Il fine del sistema è diventato la produzione, quel saper fare che i Greci antichi chiamavano «tecnica». Il prassismo, il pragmatismo, la produzione hanno sostituito l’attenzione al significato, al valore, alla verità. In poche parole la tecnologia ha gradualmente rimpiazzato la riflessione e la contemplazione.

È il Settecento il secolo in cui si è celebrato il matrimonio tra la scienza e la tecnica. Sul finire del secolo Vincenzo Monti immortala in un’ode la grandezza di quel signor di Mongolfier che ha permesso finalmente di realizzare il sogno di Icaro: volare, elevarsi dal suolo e sorvolare i mari e le montagne. Nel XIX secolo i segnali della fiducia smisurata nella tecnologia e nella meccanizzazione conseguente alla Rivoluzione industriale diventano sempre più palesi nella produzione letteraria. Carducci esalterà il progresso nell’immagine della locomotiva che permette di viaggiare sempre più velocemente.

La velocità diventerà un mito della contemporaneità. «Citius. Altius. Fortius», cioè sempre più veloce, più in alto, più forte. Battere ogni record, superare ogni ostacolo, risparmiare sempre più tempo per non sapere poi come utilizzarlo o disfarsene in maniera futile. Le automobili e i primi aerei saranno mezzi d’eccezione in possesso dei superuomini dannunziani, malati di protagonismo e di narcisismo. I futuristi vedranno nella macchina il segno della forza e della modernità, la possibilità di sradicarsi da un passato tradizionalista e vetusto in nome di un presente foriero di novità. Nel Manifesto futurista pubblicato sul quotidiano francese Le figarò il 20 febbraio 1909 Tommaso Marinetti afferma di voler cantare «l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità». La letteratura esalterà d’ora innanzi «il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno» al posto dell’«immobilità penosa, l'estasi ed il sonno». La forza, la lotta, la guerra sola «igiene del mondo», l’aggressività, «le locomotive dall'ampio petto,  il volo scivolante degli aeroplani» diventano la novità su cui fondare il nuovo mondo moderno. Non c’è alcuna traccia di riflessione critica sui cambiamenti repentini che stanno toccando la società del tempo.

Il mito dello scientismo è ormai connaturato alla cultura odierna tanto che viene considerato vero e attendibile «solamente ciò che è dimostrabile e accertabile secondo i canoni «dell’esperienza» ovvero secondo quelli delle scienze sperimentali […]. Il calcolo e la misura sarebbero gli unici metodi scientificamente legittimi per acquisire conoscenze sulla realtà» (G. Reale). Al contempo, «lo sviluppo delle scienze ha comportato una fitta pioggia di innovazioni tecnologiche […] generando la sensazione sempre più diffusa che la finalità della scienza consista nell’amplificazione senza limiti della sfera tecnologica e che, quindi, essa sia la fonte per la risoluzione di tutti i problemi dell’uomo» (G. Reale). Il binomio scienza/tecnica è diventato un’autorità in apparenza indiscutibile e  assoluta, cioè autonoma, ma, in realtà, al servizio del potere economico. 

Con Pirandello si hanno i primi segnali chiari di un approccio problematico alla tecnologia e alle macchine. Amante del cinema, lo scrittore siciliano percepisce tutta la pericolosità dell’immagine che può diventare un’ulteriore separazione tra noi e la realtà che guardiamo. Per questo dedica un’intera opera all’innovazione tecnologica e al mondo della macchina che fa irruzione nel mondo degli uomini. Nasce il romanzo Si gira che poi prenderà il nome definitivo di I quaderni di Serafino Gubbio operatore.

Serafino rappresenta l’iperbolica amplificazione delle difficoltà di comunicazione autentica che caratterizzano l’essere umano. La perdita della parola è, in un certo senso, il rischio che corre un uomo che sempre più utilizza degli strumenti di comunicazione che non hanno lo stesso calore della viva parola. Quando l’uomo dimentica che i mezzi sono solo modalità di comunicazioni utili in talune circostanze, li trasforma nella propria voce.

Si perde l’integralità della comunicazione, che è affidata a sguardi, a gesti, a toni di voce, all’affetto, e permane solo il messaggio o, meglio, il presunto fine del messaggio. Diventano, così, importanti non tanto l’intensità e la profondità della comunicazione, ma la sua rapidità e la sua frequenza. Sono, forse, così più facilmente comprensibili alcuni scenari comunicativi del terzo millennio.

L’economista statunitense J. Rifkin (1943) sostiene che nella postmodernità il mito del possesso è stato sostituito dall’accesso ai servizi e alla comunicazione. Sarebbe finita un’epoca incentrata sull’obiettivo di accumulare sempre più ricchezze, possedimenti, beni. Ne sarebbe iniziata una nuova, di cui si vedrebbero ormai chiaramente i segni, determinata dal godimento dei piaceri, dall’accesso ai servizi sempre più comodo e immediato. La facilità del servizio, l’eliminazione della fatica, del dispendio inutile di tempo, dell’immediatezza del consumo sono elementi che contraddistinguono un’epoca incentrata sul piacere più che sulla roba.

In sostanza questo sviluppo è direttamente scaturente dall’esasperazione del piacere, anche virtuale, cioè non reale, e del tempo come unica dimensione fondamentale. La dimensione del luogo dove accade un fatto, dove incontri la persona, dove parli e ti confronti è considerata secondaria o, meglio, il luogo può anche essere un non luogo, virtuale, non reale, fittizio e ingannevole, mentre si deve avere l’impressione di poter gestire il tempo senza perdere neanche un istante. 

Che posizione bisogna, dunque, assumere nei confronti della tecnologia? Ci possono aiutare a rispondere le parole che Papa Benedetto XVI dedicò alle nuove tecnologie comunicative il 28 febbraio 2011. Il Papa scrisse: «I nuovi linguaggi che si sviluppano nella comunicazione digitale determinano, tra l’altro, una capacità più intuitiva ed emotiva che analitica, orientano verso una diversa organizzazione logica del pensiero e del rapporto con la realtà, privilegiano spesso l’immagine e i collegamenti ipertestuali. La tradizionale distinzione netta tra linguaggio scritto e orale, poi, sembra sfumarsi a favore di una comunicazione scritta che prende la forma e l’immediatezza dell’oralità».

Le nuove tecnologie comportano scelte coraggiose, offrono occasioni nuove, presentano sfide più grandi. «I rischi che si corrono, certo, sono sotto gli occhi di tutti: la perdita dell’interiorità, la superficialità nel vivere le relazioni, la fuga nell’emotività, il prevalere dell’opinione più convincente rispetto al desiderio di verità. E tuttavia essi sono la conseguenza di un’incapacità di vivere con pienezza e in maniera autentica il senso delle innovazioni. Ecco perché la riflessione sui linguaggi sviluppati dalle nuove tecnologie è urgente. […] La cultura digitale pone nuove sfide alla nostra capacità di parlare e di ascoltare un linguaggio simbolico che parli della trascendenza».

Papa Benedetto XVI affermò che la fede in Gesù permette di «promuovere una comunicazione veramente umana» e di scorgere «orizzonti di senso e di valore che la cultura digitale non è capace da sola di intravedere e rappresentare». La vera comunicazione è improntata alla responsabilità e al dialogo e «mai alla seduzione linguistica, come è invece il caso del serpente» (cioè il diavolo tentatore) o «alla incomunicabilità e alla violenza» (come nel caso di Caino). Il problema, una volta ancora, non è nello strumento (la tecnologia), ma nella coscienza che ha l’uomo di se stesso. In se stesse le nuove tecnologie, sempre a detta del Papa, possono favorire la diffusione della buona novella e del regno di Dio, che è la verità dell’uomo.