ITALIA
Lavoro, una riforma poco coraggiosa
Roberto Corno, consulente del lavoro, approva concettualmente la riforma voluta dal governo tecnico, ma avverte che nella sostanza cambierà poco.
Attualità
29_03_2012
La riforma del lavoro proposta dal governo Monti «ha un valore positivo dal punto di vista concettuale, ma dubito fortemente che sortisca effetti reali: ne è simbolo la battaglia sull’articolo 18». E’ quanto afferma Roberto Corno, consulente del lavoro, esperto di ricerca e selezione del personale. Commissione Europea e Ocse (l’organismo che include tutti i paesi industrializzati) hanno salutato con grande favore questa riforma, se ne è parlato in termini elogiativi anche ieri nell’incontro avuto dal nostro presidente del Consiglio in Giappone, ma a un esame attento del testo, emergono anche forti perplessità.
Dottor Corno, l’attenzione dei media e delle forze politiche e sindacali si è tutta concentrata sull’articolo 18. Ma si può ridurre a questo la riforma del lavoro?
Diciamo che il confronto su questo articolo sintetizza bene il senso della battaglia che si sta svolgendo attorno a questa riforma nel suo complesso.
In che senso?
L’articolo 18 è un simbolo dell’intangibilità del posto di lavoro, dell’inamovibilità del dipendente in un’azienda ed è per questo che la battaglia si è concentrata qui. La proposta del governo è positiva perché dal punto di vista concettuale attacca questo tabù, ma gli effetti concreti di questa riforma saranno minimi. In altre parole è certo importante che anche come enunciazione non ci sia l’obbligo al reintegro, che il rapporto si possa risolvere con un indennizzo. In questo modo il datore di lavoro è più tranquillo anche nell’assumere. Basta vedere l’esempio della Svizzera: nel Canton Ticino le assunzioni sono molto più facili proprio perché c’è una maggiore flessibilità in uscita. La ricerca di personale per una azienda è semplice, si decide per un’assunzione anche nel giro di poche ore, in ogni caso in poche settimane, perché comunque è una decisione che ha un rischio e un impatto limitato. E non è che allora ci sono licenziamenti facili, i lavoratori sono piuttosto stabili: dobbiamo toglierci l’idea che il datore di lavoro sia sempre e soltanto un malandrino che cerca in tutti i modi di mettere in difficoltà il lavoratore. Ci sono certamente anche questi casi, ma nella normalità dei casi non è così.
Però lei dice che a parte la questione concettuale, nella pratica cambierà poco.
Sì, perché già attualmente si percorrono strade per rendere meno rigido l’art. 18. Ad esempio il licenziamento per ragioni economiche oggi si chiama mobilità, quindi il datore di lavoro può già negoziare l’indennità con il sindacato. In ogni caso fare una legge che – nel caso le cose non dovessero andare bene per l’azienda - permette al datore di lavoro di rinunciare, pur dolorosamente, a una parte del proprio capitale umano per salvare il salvabile, è corretto.
In realtà bisogna vedere come viene applicata questa norma, perché essa lascia tanto spazio alla valutazione del giudice. Per cui si rischia di tornare alla situazione attuale. In teoria già adesso possiamo licenziare, in pratica però c’è sempre la minaccia del ricorso: ad esempio se io imprenditore licenzio 3 lavoratori su 30, i criteri con cui scelgo i 3 sono il più possibile oggettivi, ma sempre discutibili, per cui quello che è stato licenziato è legittimato ad andare dal giudice e dire che c’è un altro che a parità di condizione poteva essere licenziato, quindi si rileva la discriminazione e l’obbligo di reintegrarlo. In genere datore di lavoro e lavoratore transano con una buona uscita in modo che non ci sia questo problema. Ma questo avverrà anche dopo, questa riforma non pone un paletto a questa ipotesi. Quindi cambia la logica, si introduce per la prima volta l’idea che possa esserci un licenziamento anche senza l’accordo previo con il sindacato. Però il datore di lavoro paga comunque con un costo più alto. In pratica, allo stato attuale delle cose non è presumibile una maggiore tranquillità per gli imprenditori tale da indurli poi ad assumere di più. Alla fine è un intervento di facciata.
E’ stato anche molto criticato il fatto di non estendere certe misure anche al settore statale.
Questa è una pecca concettuale gravissima, perché non va a toccare una delle principali fonti di costo del paese, che è la pubblica amministrazione. In questo settore ci sono molti posti di lavoro che non producono nulla, nessun valore aggiunto. La Pubblica Amministrazione è in gran parte causa del debito pubblico, soprattutto laddove ci sono posti di lavoro che non producono valore aggiunto o dove vige la vecchia mentalità burocratica. Non mettere mano a questo settore significa lasciare irrisolto uno dei più gravi problemi italiani.
Alcuni sostengono che la riforma Monti-Fornero smantelli le innovazioni contrattuali della Legge Biagi.
In effetti sul fronte dei contratti c’è un irrigidimento delle norme senza che siano introdotte vere innovazioni. E’ comprensibile l’intento di prevenire gli abusi su forme contrattuali non a tempo indeterminato, ma invece di andare nella prospettiva di una maggiore flessibilità, le misure introdotte la restringono.
Può fare qualche esempio?
Il lavoro a progetto, per cominciare: è comprensibile la preoccupazione di renderlo più limitato alla sua vera natura, però già oggi la normativa se bene applicata non giustifica interpretazioni malevole. Verrà limitato il lavoro accessorio, che invece in questi anni è stato molto interessante per fare emergere il lavoro in nero (ripetizioni, piccoli lavori di giardinaggio, le attività estive degli studenti). Peraltro è anche una possibilità per gli studenti di cominciare ad avere contributi a fini previdenziali. Ora invece sarà irrigidito. Poi c’è il capitolo del tirocinio formativo. Il lavoro va pagato, su questo non ci piove però il tirocinio ha carattere formativo, quindi cambiarlo in rapporto di lavoro effettivo non va bene. Oggi è uno dei principali strumenti di accesso al lavoro, spesso precede l’apprendistato, cosa lo differenzierà in futuro dal lavoro vero e proprio non è chiaro. Ma il punto più negativo sui contratti è un altro.
Dica.
Il part-time. Vengono irrigidite le procedure rendendo ancora meno utilizzabile questo strumento, che già oggi è poco diffuso. In Europa siamo già indietro su questo punto e ora andiamo ancor più in controtendenza. Ci sarebbe bisogno invece di agevolare il part time soprattutto in chiave di conciliazione di vita familiare e vita lavorativa.
Il tema della conciliazione famiglia-lavoro è molto importante.
E’ centrale, ma in questa riforma manca il coraggio di scelte veramente innovative. Non solo nel capitolo della conciliazione viene completamente ignorato lo strumento del part time, ma ci vorrebbe più coraggio nell’immaginare dei servizi e delle facilitazioni più avanzati. Questo è anche un tema strategico per il futuro del nostro paese, perché la situazione demografica italiana, con il calo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione, fa sì che oggi abbiamo circa la metà di persone che entrano nel mercato del lavoro rispetto a quelle che escono. Entrano ogni anno 450 mila giovani e ne escono 800mila. Vuol dire che il mercato del lavoro si depaupera. A questo si deve aggiungere che ogni anno circa 50mila giovani vanno all’estero a lavorare. E non siamo in grado di sostituirli perché l’indice di natalità per donna è ben sotto il tasso di sostituzione, non ultimo perché lavorare e far famiglia sono cose inconciliabili. Questo fatto è strutturalmente un dramma: nel 2030 ci saranno 118 bambini per 220 genitori, vuol dire che quei 118 bambini dovranno pagare le pensioni ciascuno per 2 genitori più quelli che non hanno avuto figli, quindi due persone e mezzo cadauno. In pratica si rovescerà il rapporto attuale, e l’immigrazione non è in grado di coprire questa mancanza. Se non interveniamo con urgenza tra 10 anni dovremo fare una manovra sulle pensioni ancora più grave di quella attuale, si dovranno per forza ridurre le prestazioni. Su questo mi sarei aspettato molto di più, oltretutto da un ministro donna.
E della parte relativa agli ammortizzatori sociali cosa ne dice?
Direi che è la parte più interessante della riforma, la più positiva soprattutto perché semplifica la giungla di indennità, che hanno oggi una serie di requisiti complessi per la loro gestione. Quindi qui c’è un buon lavoro di riordino e semplificazione della materia.
Un punto cruciale è anche l’accesso al mercato del lavoro.
E qui bisogna fare una critica molto forte. Il documento in questa parte è stato scritto di fretta da persone non competenti, in modo molto superficiale. E’ evidente una mancanza di strategia in questo campo, oltretutto facendo fuori tutta una serie di conquiste fatte negli anni recenti, dal 2003 in poi. C’è una forte esigenza di riorganizzazione del mercato del lavoro, ma non c’è alcuna idea concreta di come fare. Il mercato del lavoro è strategico, per fare in modo che domanda e offerta si incontrino. Basti pensare che nel 2011 su 600mila assunzioni, 117 mila sono state difficili: i tempi medi di reclutamento sono 4,2 mesi, in molti casi si arriva a 8-10 mesi. Come è possibile tutto questo tempo con la disoccupazione giovanile al 30%?