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IL LIBRO

"Lavorare è un peso? Così può diventare una passione"

L’ambito lavorativo è spesso fonte di malessere, non si sa gestire l'aggressività, non si sa perché si operi e non si è capaci di combattere le abitudini sbagliate. Eppure il passato ha un segreto che svela come "faticare" con letizia e riconoscere il bene in ogni giorno. Stefano Parenti, psicologo e psicoterapeuta operante in una grande azienda milanese, ha spiegato alla Nuova Bussola Quotidiana il cuore del suo libro “Il tuo lavoro ha un senso?”.

Educazione 07_10_2020

In un momento storico in cui ci si interroga sulla struttura delle relazioni e della famiglia o sul bisogno di salute, l’argomento del lavoro, al di fuori della sicurezza e del guadagno che reca, non viene quasi mai affrontato. Eppure l’ambito lavorativo è spesso fonte di malessere. Perciò Stefano Parenti, psicologo e psicoterapeuta operante in una grande azienda milanese, ne ha parlato nel suo libro “Il tuo lavoro ha un senso?” (edizioni Sugarco).

Come mai se spendiamo circa un terzo delle ore del giorno a lavorare non ci chiediamo perché lo facciamo?
Viviamo in un sistema che non facilita questa domanda. Si dà per scontato che l’unico motivo valido per lavorare siano i soldi che ci servono per fare ciò che vogliamo e stare lontani dal lavoro. Mi ha colpito la canzone “Una vita in vacanza” del gruppo Lo Stato Sociale, che parla di fare soldi per poi svagarsi e non fare nulla. Il lavoro è visto solo come un peso inevitabile su cui non riflettere troppo e l'ozio come un noioso far nulla, ma ciò genera patologia anziché felicità.

Ha scritto che le problematiche di ansia e di conflittualità sul lavoro dilagano. E’ la fragilità della persona e della famiglia che si ripercuote sul lavoro o la difficoltà sul lavoro incide sulla vita personale e familiare del singolo?
Se c’è un problema al lavoro lo si riversa a casa e viceversa, ma la soluzione non è la conciliazione famiglia-lavoro come un equilibrio. Il punto è quale senso diamo a tutta la vita, per cui andiamo al lavoro oppure stiamo a casa. Posso lavorare sbuffando perché devo o con letizia, sapendo che il mio fare serve a qualcuno. Se vivo il lavoro come servizio riesco anche a mettere dei limiti ad esso: so che ho un compito anche in famiglia e che ho bisogno degli amici e del riposo per tornare più carico al lavoro. Vedo invece tanti giovani spremuti solo per fare carriera che poi diventano insofferenti per rimanere senza famiglia né amici.

Lei parla di “senso” del lavoro, ma da dove lo si trae?
Platone, Aristotele, la tradizione occidentale antecedente alla rivoluzione industriale, dove si lavorava letteralmente con il sudore della fronte, ci parlano delle ragioni per cui si lavora contenti. Nel libro ne sintetizzo quattro. La prima: procurarsi il necessario per sopravvivere (non per comprare il superfluo). La seconda: l’educazione delle passioni. La terza: combattere contro la pigrizia che ci priva del gusto. La quarta: l’elemosina, prenderti cura di chi ti circonda. Un papà che lavora tanto per mantenere il figlio all’università sta facendo elemosina; una mamma che accudisce i figli usa il suo tempo per migliorare il mondo facendoli crescere buoni. Andare al lavoro con questa consapevolezza lo fa diventare un bisogno.

La fatica che dà gusto, la pigrizia che ce ne priva e il lavoro come bisogno. Può spiegare meglio?
Un giorno ero in gita in montagna con alcuni amici, sopra di noi c’era una seggiovia. Alcuni hanno protestato chiedendosi perché fosse necessario camminare ore quando si poteva salire in seggiovia, perciò alcuni di noi hanno preferito prenderla. Dopo due ore che guardavo il paesaggio mi sono stufato, in quel momento sono arrivati i miei amici a piedi: ricordo ancora i loro occhi stupiti per cui compresi che la fatica fatta per guadagnarsi il panorama gli permetteva di goderselo di più. Questo psicologicamente è sempre vero: scegliere la cosa più comoda rispetto a quella più giusta porta ad una minore affezione verso la cosa stessa.

Nel libro si legge che l’affezione per il lavoro senza giusta motivazione è dipendenza, mentre la giusta motivazione senza affezione è doverismo. Eppure non sempre alla motivazione segue l’affezione?
San Tommaso dice che non c’è virtù senza piacere. L’uomo virtuoso se non ha piacere in ciò che fa non è veramente tale. Se la passione viene meno ma tu continui a rinnovare la giusta ragione per cui fai una determinata cosa, la passione segue. Ad esempio, se amo mia moglie non è che la amerò automaticamente per sempre, devo continuamente darmi le ragioni per cui spendere la vita con lei corrisponde ai miei bisogni più veri. Con il mio libro cerco di individuarli.

Riprendendo lo psicoterapeuta americano Kleponis lei sostiene che per essere felice l’uomo deve avere delle priorità: Dio, matrimonio, bambini, carriera, amici, se stessi. Se questa gerarchia è quantitativa allora ci sono tantissimi lavori che sono contro la felicità dell’uomo.
Direi che la priorità è una questione innanzitutto di coscienza, come dice la lezione cristiana sul lavoro riguardo alla vita attiva e contemplativa. Il punto è fare della vita attiva una contemplazione. Certamente c’è anche un aspetto quantitativo: se non dai qualche ora fisica alla contemplazione, fatichi a rendere la vita attiva contemplativa. Ugualmente, è difficile lavorare con la cosicenza che si fa del bene alla propria famiglia se non le si dedica del tempo.

Il mondo del lavoro oggi sembra un bosco ci lupi. Eppure lei sostiene che spesso manca la giusta aggressività. Cosa intende?
Quando al semaforo incontri il bullo che non si sa contenere significa che ha un problema con la sua forza. Ho incontrato giovani palestrati che faticavano a dichiararsi ad una donna. Entrambi appaiono forti ma in realtà sono deboli. Hanno problemi con la loro aggressività anche coloro che si fanno mettere sempre i piedi in testa. Nelle aziende è pieno di lupi e di qualche pecora: sono deboli anche se in maniera diversa. Gli uomini veramente virili sanno usare la loro forza in maniera adeguata (ad esempio per difendere qualcuno o per resistere alle difficoltà). Le persone forti non si notano se non quando ci sono dei problemi: sono quelle calme, che perseverano, non sacrificano la gente e cercano soluzioni. Sia i lupi sia le pecore non conoscono la ragione per cui possiedono la forza e quindi non la sanno usare adeguatamente. Anche qui è un problema di educazione al senso.

C’è chi vive per il lavoro ma c’è anche chi si assenta spesso, si lamenta continuamente del capo e dei colleghi: la soluzione è il cambio di lavoro ma quando si cambia si è infelici. Che fare?
In questo caso la soluzione migliore è smettere di lamentarsi. Chi si lamenta non cambia. Chi smette di lamentarsi comincia a vedere il bene. Il nostro cervello si modifica a seconda di come lo abituiamo, nel libro ci sono degli esempi.

Sembra facile ma, spinti a pensare che la fatica sia un male, non c’è obiezione più grande a quella interiore.
Paul Bourget in un suo romanzo dice: “Bisogna vivere come si pensa, se no, prima o poi, si finisce col pensare come si è vissuto”. Bisogna combatte le abitudini cattive del pensare. Sant’Ignazio diceva: “Agire contro”. Ad esempio, ti viene da arrabbiarti quando qualcuno ti contraddice? Comincia a smettere di arrabbiarti. Se hai esercitato per anni una abitudine negativa a causa dell’educazione ricevuta o di un trauma, quello è il tuo abito e toglierlo ti pare impossibile (nessuno si spoglia per strada), perciò bisogna prima prendere coscienza del fatto che la corazza non serve più, che è pesante e combattere pazientemente per tirarla via in modo da sviluppare la virtù opposta.

Lei descrive la privazione e il sacrificio, anche non ripagato, come un’occasione. Cosa intende?
Il sacrificio può farmi crescere come persona, al di là di quello che posso ottenere. Il bene si fa non perché porta un utile ma perché, oltre a diffondersi sempre, fa bene a chi lo fa. Se prendo una cartella di un certo tipo a mia figlia per il suo bene, anche se lei si lamenta perché ne voleva un’altra, io sono contento: so di averle fatto del bene.

L’ideale di sé è forse la dimensione più caratterizzante dell’uomo”, come non soccombere se si fatica a raggiungerlo?
Anche i santi non si sentivano mai a posto. Ma uno, anche psicologicamente, deve sempre tendere all’ideale. E’ utile far vedere modelli positivi di gioventù non per i successi che ottengono ma per le loro virtù. L’esempio di Steve Jobes è pericoloso perché viene osannato per aver fatto miliardi e per aver costruito una azienda con centinaia di dipendenti. Un ideale simile deprime. Al contrario persone che amano il lavoro, che si danno da fare e fanno del bene sono modelli raggiungibili che aiutano a vivere.

Nel libro c’è un'appendice in cui si legge che chi ama Cristo fa meglio al lavoro. A questo punto non si può non chiedersi come nasca l’amore a Dio?
Io ho scritto questo libro per tutti anche per chi non crede: le virtù sono verità di ragione. Pedagogicamente poi la domanda di senso dovrebbe portare alla domanda sul Senso. Rispondo però ai cristiani con un insegnamento della Deus Caritas Est: noi prima di amare siamo amati da Dio. E i bambini che mi sorridono quando mi sveglio, chi sono se non un segno del Signore che me li ha dati? Ma bisogna essere educati a guardare le cose così. Perciò ai pazienti cattolici affetti dal doversimo faccio scrivere un diario su tutte le volte che hanno visto il bene gratuito di Dio nella loro giornata, così che il bene che fanno, anziché un atto moralistico, sia la conseguenza del Suo Amore. Anche la fede è una virtù, un habitus da alimentare.