L’Ascensione (II parte) – Il testo del video
L’Ascensione è la manifestazione palese e gloriosa della divinità di Cristo e della sua regalità, un mistero volto ad accrescere la nostra riverenza. Le ricadute sulla liturgia. Il particolare della nube: il legame tra i due Testamenti.

Oggi concludiamo la quæstio 57 che san Tommaso dedica all’ascensione del Signore. La scorsa volta abbiamo visto i primi tre articoli e abbiamo parlato rispettivamente delle ragioni di convenienza dell’ascensione di Cristo al cielo; e in particolare ci siamo soffermati su come la sottrazione dell’umanità di Cristo dallo sguardo, dall’esperienza sensibile degli apostoli in primis e poi di tutti gli uomini di ogni tempo, abbia favorito la crescita delle tre virtù teologali. Poi abbiamo visto se sia ascesa l’umanità di Cristo o anche la sua divinità. E infine abbiamo indagato per quale forza, per quale virtù, Cristo è asceso al cielo, cioè se è stato assunto al cielo o se invece è asceso al cielo per virtù propria.
Oggi concludiamo la quæstio, vedendo gli articoli 4, 5 e 6. L’art. 4 e l’art. 5 devono essere letti un po’ in continuità perché in essi si valuta, innanzitutto, l’ascensione del Signore come un salire al di sopra di tutti i cieli, ossia di tutte le creature dotate di una materialità; e nell’art. 5 si spiega come l’ascensione al cielo sia anche un salire al di sopra di ogni creatura spirituale.
Dunque, vediamo l’art. 4. Cosa vuol dire salire al di sopra degli altri corpi? Non è semplicemente un moto locale, ma è proprio un essere elevati al di sopra di ogni altra dignità corporea creata. Il cielo è l’elemento creaturale più nobile, più alto: e Cristo, con la sua umanità, ascende al di sopra di esso.
Nella risposta alla prima obiezione, san Tommaso fa una notazione di grande interesse: «Si dice che il trono di Dio è in cielo non perché questo lo contenga [quindi non perché il cielo-creatura contenga il trono di Dio], ma perché ne è contenuto» (III, q. 57, a. 4, ad 1). Questa è una precisazione di metodo che noi dobbiamo sempre avere presente quando parliamo del rapporto tra Dio e la creazione, tra Dio e il mondo, tra l’eternità e il tempo. Non possiamo dire che Dio è collocato in un posto, in questo caso che il trono di Dio è collocato in cielo, intendendo che una realtà materiale contenga Dio, contenga il suo trono. È vero il contrario, ossia che tutto ciò che è creato è contenuto in Dio. Dunque, Dio si trova lì, in questo caso sul suo trono, non perché quel luogo, quel sito lo contenga ma perché è Dio a contenerlo.
Una volta ho già accennato alla realtà eternità-tempo. Non è che l’eterno, Dio, è nel tempo perché in qualche modo il tempo lo possa contenere, ma è nel tempo in quanto il tempo è contenuto dall’eternità, è contenuto in Dio. Questa è una correzione importante di prospettiva per non cadere in comprensioni sbagliate che evidentemente nascono da un dato, quello della nostra esperienza. La nostra esperienza spazio-temporale ci dice che io sono in una stanza che mi contiene: non sono io che contengo la camera. Quando parliamo di Dio dobbiamo apportare una correzione sostanziale.
Un altro aspetto dell’art. 4, su cui vale la pena soffermarsi, è la risposta alla terza obiezione, dove si spiega un versetto degli Atti degli Apostoli (1, 9) che appunto, parlando dell’ascensione, dice che «una nube lo sottrasse al loro sguardo». Non è semplicemente una descrizione circostanziata di un fatto, cioè arriva una nuvola e scompare il Signore. C’è qualcosa di straordinariamente più denso in questa espressione. E san Tommaso spiega: «Quella nube non servì a Cristo da veicolo per salire al cielo, ma comparve quale segno della sua divinità come la gloria del Dio d’Israele appariva sul Tabernacolo sotto la forma di una nube» (III, q. 57, a. 4, ad 3). Questa è un’affermazione dalla portata straordinaria che ci dice l’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. L’Antico e il Nuovo Testamento, e in realtà tutta la creazione, non fanno altro che parlare di Cristo, anticipare Cristo. Qui che cosa ci sta dicendo? Ritroviamo questa immagine nel libro dell’Esodo e nel libro dei Numeri, dove la gloria di Dio (la Shekinah), la presenza di Dio si manifesta a Israele tramite una nube, che in qualche modo non solo guida il popolo nel deserto, ma si ferma, staziona al di sopra della Tenda del convegno, del Tabernacolo. Quando poi il popolo doveva riprendere il cammino nel deserto, questa nube si alzava e tutti capivano che era Dio che segnava il passo e dovevano seguirlo. L’elemento che dobbiamo trattenere è che la nube è la presenza di Dio.
Qui san Tommaso ci sta dicendo che questa nube, al momento dell’ascensione del Signore, non è solamente il simbolo della presenza di Dio, ma è in qualche modo l’elemento di unione dell’unica presenza divina tra il suo popolo, nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Detto in altro modo: l’uomo-Dio che viene sottratto allo sguardo degli apostoli dalla nube è lo stesso Dio che aveva accompagnato il popolo di Dio nel deserto. Uno potrebbe dire che è ovvio che ci sia un solo Dio, ma qui c’è qualcosa di più: non è semplicemente Jahvè, cioè il Dio unico; in questa affermazione c’è la volontà di rendere il fatto che già nell’AT era Cristo stesso che agiva: è vero che Dio non si era ancora incarnato, che la seconda persona della Santissima Trinità non si era ancora incarnata, eppure tutta la storia, tutta la creazione non parlava di altro, non diceva altro, non manifestava altro se non il Dio incarnato.
Il Dio incarnato, che i discepoli vedono salire, si nasconde loro dietro una nube: questa nube sta “dicendo Dio”; essa immediatamente fa scattare questo collegamento nell’anima tipicamente ebraica di chi ha assimilato, vissuto la tradizione veterotestamentaria. Questo Gesù che vediamo salire è esattamente lo stesso Dio dei nostri padri, il Dio che ha redento, riscattato i nostri padri dalla schiavitù del faraone e che ora ci ha redenti dalla schiavitù di un altro faraone ancora più terribile, ossia il demonio, il peccato.
Dunque, è bellissima questa piccola notazione di san Tommaso. Ricordiamo che la Summa non è un trattato di commento dei testi delle Scritture (il commento c’è in altre opere di san Tommaso). La Summa, come dice la parola stessa, indica proprio la volontà di una sintesi, di una raccolta di elementi; quindi non abbiamo un trattato sull’Antico o il Nuovo Testamento, eppure in questi testi vediamo questo sfondo, e lo vediamo emergere quasi con una naturalità disarmante per noi che siamo invece molto arroccati e cerchiamo di fare chissà quali discorsi critici. Per Tommaso, in generale per l’uomo, il cristiano medievale, non c’è che un solo Dio, ma non è un Dio astratto: è lo stesso identico Dio di Gesù Cristo, il Dio incarnato.
Nell’art. 5, come anticipato, abbiamo l’affermazione della salita di Cristo al di sopra anche delle creature spirituali, cioè gli angeli. Non dovrebbe porci problemi pensare che l’anima di Cristo, essendo spirituale, salga al di sopra degli angeli, ma qui si sta dicendo qualcos’altro: si sta dicendo che Cristo, in anima e corpo, viene elevato al di sopra delle creature spirituali. Cioè, le creature puramente spirituali, gli angeli, sono per natura superiori all’uomo: per la loro natura, non parliamo qui di grazia (vi rimando a tutta quella serie di catechesi dove abbiamo parlato della natura angelica e poi della grazia data agli angeli).
Ora, il corpo del Signore, che per natura è inferiore alle sostanze puramente spirituali, com’è inferiore alla sua stessa anima (ciò che è materiale è inferiore a ciò che è spirituale), ascende al di sopra, come dignità, delle sostanze spirituali. Perché, come dice Tommaso, «il corpo di Cristo, pur essendo al di sotto delle sostanze spirituali per la condizione della sua natura, le supera tuttavia in dignità a motivo della sua unione ipostatica con Dio. In forza quindi della congruenza suddetta gli è dovuto un luogo superiore a quello di ogni altra creatura, anche spirituale» (III, q. 57, a. 5).
Di nuovo torna la verità centrale dell’unione ipostatica: è in virtù dell’unione ipostatica che non solo Cristo ascende per virtù propria, ma anche che appunto l’intera sua umanità, incluso il corpo, superi in dignità quelle sostanze spirituali, gli angeli, che per natura sarebbero superiori alla corporeità umana.
Questo è un po’ il contenuto di questi due articoli che spiegano cosa vuol dire questo ascendere in alto, questo andare al trono di Dio, al di sopra dei cieli.
Adesso vediamo nell’art. 6 un altro tema – che abbiamo visto un po’ in tutti i misteri della vita del Signore –, e cioè se l’ascensione sia stata la causa della nostra salvezza. Torna questo tema che mostra come i misteri di Cristo non sono semplicemente contenuti dottrinali o esempi da imitare, ma sono qualcosa di più: sono una causalità che agisce e continua ad agire nella storia e in particolare nelle membra di questo corpo che ha come capo il Signore.
Vediamo in quali modalità l’ascensione del Signore causa la nostra salvezza. San Tommaso distingue “rispetto a noi” e “rispetto a Cristo stesso”. Cosa vuol dire “rispetto a noi”? Si intende quello che l’ascensione del Signore muove, suscita nell’animo umano. Dice Tommaso: «Rispetto a noi perché dall’ascensione di Cristo la nostra anima viene mossa verso di lui. Come infatti si è visto sopra [l’art. 1, che abbiamo visto la volta scorsa], dalla sua ascensione riceve un impulso: primo, la fede; secondo, la speranza; terzo, la carità. In quarto luogo, da essa viene accresciuta la nostra riverenza verso di lui, per il fatto che non lo consideriamo più come un uomo della terra, ma come il Dio del cielo. Come dice anche l’Apostolo con quelle parole: “Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne”, “cioè mortale”, come spiega la Glossa, “per cui lo abbiamo ritenuto un puro uomo”, “ora non lo conosciamo più così”» (III, q. 57, a. 6). Qui c’è un intreccio tra la Seconda Lettera ai Corinzi (5, 16: «Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così») e la Glossa, cioè un commento interlineare dei testi delle Scritture molto in uso in epoca medievale. Quindi, il punto è che con l’ascensione noi abbiamo accresciuto «la nostra riverenza verso di lui». Finché l’esperienza di Cristo era un’esperienza nella carne, mediata dalla carne, la nostra riverenza verso di Lui non poteva non tenere conto in qualche modo di questo aspetto, che rivelava e allo stesso tempo velava la divinità. Ma l’ascensione è la manifestazione palese, pubblica, gloriosa, della divinità di Cristo e della sua regalità. Di fronte a questo mistero, dice Tommaso, la nostra riverenza verso di Lui viene accresciuta; questo uomo, Gesù di Nazaret, è ormai senza più alcun velo, manifestato nella sua divinità.
Questo aspetto è di estrema importanza, soprattutto per la sua ripercussione sulla liturgia. Torno su un punto che altre volte ho richiamato. Se noi abbiamo una concezione sbagliata della redenzione, del cristianesimo, abbiamo una concezione sbagliata della liturgia, e viceversa. I due aspetti si tengono insieme. Se noi “blocchiamo” il cristianesimo all’Incarnazione, cioè alla discesa del Verbo, alla sua kenosis, e tagliamo la sua Ascensione gloriosa, è chiaro che ne risulterà un modo di vivere la fede, la preghiera liturgica, la preghiera della Chiesa, decisamente più attento al lato umano di Cristo e più dimentico del divino. Se noi teniamo presente tutta la parabola della discesa e dell’ascesa di Cristo, non dimentichiamo l’aspetto di Dio che si fa uomo, ma, come dice Tommaso, lo leggiamo alla luce di questa glorificazione che è l’Ascensione, che aumenta in noi la riverenza verso la sua divinità. E dunque i segni con cui esprimiamo questo essere al cospetto di Cristo asceso al cielo, vero Dio e vero Re, dovranno marcare di più questo aspetto.
Detto in altro modo: la solennità, la riverenza del culto dipendono dalla consapevolezza che il culto della Chiesa non è la commemorazione di eventi dell’Incarnazione e basta, ma si svolge al cospetto di Cristo asceso al cielo. Il Cristo incarnato è il Cristo asceso al cielo, il Cristo morto è il Cristo asceso, il Cristo che patisce è il Cristo asceso. Questo ci permette di tenere insieme gli aspetti della fede. Dall’altra parte, la condiscendenza di Dio ci permette di accostarci a Lui nei segni liturgici e di riceverlo addirittura in noi, misticamente ma realmente, nell’Eucaristia.
Andiamo avanti con l’art. 6. Prosegue san Tommaso: «Rispetto a Cristo, si deve invece considerare quanto egli ha fatto per la nostra salvezza salendo al cielo. Primo, ci ha preparato la via per salire in cielo, stando alle sue stesse parole: “Vado a prepararvi un posto” (Gv 14, 2). (…) Essendo egli infatti il nostro capo, è necessario che le membra raggiungano la meta dove egli le ha precedute, secondo il suo desiderio: “Affinché siate dove sono io” (Gv 14, 3)» (ibidem). Torna l’aspetto su cui Tommaso insiste in continuazione, cioè il legame tra il Capo e le membra. Questo “preparare la strada” non è semplicemente il sistemare un sentiero, ma è qualcosa di molto più profondo: è il fatto che le membra sono attratte verso il Capo, dov’è il Capo là le membra vengono in qualche modo tirate, trascinate. «Essendo egli infatti il nostro capo, è necessario che le membra raggiungano la meta dove egli le ha precedute». Quindi non è un mero preparare la strada e poi dire “voi andate”, ma è un “dove sono io, siate anche voi”. Questa realtà torna con insistenza nei testi di Tommaso. La relazione che c’è tra noi e Cristo è la relazione che c’è tra il capo e le membra, è qualcosa di profondamente intimo. E i misteri della fede agiscono a questo livello di intimità, di legame.
«Secondo, come nell’Antico Testamento il pontefice entrava nel santuario al fine di stare al cospetto di Dio per il popolo, così anche Cristo è entrato in cielo “per intercedere in nostro favore” come dice san Paolo (Eb 7, 25). Poiché la sua stessa presenza, con la natura umana portata in cielo, è come un’intercessione per noi» (ibidem). Vediamo di nuovo l’adempimento di una figura veterotestamentaria, quella del sommo sacerdote: tutta la Lettera agli Ebrei è giocata su questo aspetto, su Cristo sommo ed eterno sacerdote.
Cosa faceva il sommo sacerdote? Stava nel santuario, tra il popolo e Dio, per intercedere in favore del popolo al cospetto di Dio. Cristo è il nuovo ed eterno sacerdote: la sua umanità è portata davanti al trono, sta davanti al trono per intercedere in nostro favore. Dunque, è collocato al di fuori del tempo o, meglio, al di sopra del tempo, della realtà creata, ma non per distaccarsene, bensì perché da questo punto “al di sopra” Egli possa agire su ogni persona, su ogni luogo, ogni tempo della storia. È una collocazione al di fuori della creazione, al di fuori del tempo, al di sopra di ogni spazio, ma non per indicare il distacco tra noi e Dio, ma precisamente perché questo punto “esterno” è un punto da cui si irradia questa potenza di intercessione e di grazia in ogni segmento del mondo e della storia dell’umanità. Quindi capiamo sempre di più il senso profondo dell’affermazione del Signore: «È bene per voi che io me ne vada» (Gv 16, 7): questa umanità portata “al di sopra” agisce ovunque, non è più costretta in un villaggio della Galilea e in un tempo esclusivo e determinato.
«Terzo, una volta assiso nei cieli come Dio e Signore, Cristo può distribuire i doni divini agli uomini, secondo le parole di san Paolo: “Ascese al di sopra di tutti i cieli per riempire tutte le cose” (Ef 4, 10)» (III, q. 57, a. 6). Si tratta di quello che vi ho anticipato: questa ascesa, questa intercessione del nuovo sommo sacerdote ha un “effetto pioggia” di doni riversati sugli uomini, di tutti i luoghi e di tutti i tempi.
Ora, san Tommaso fa una precisazione nella risposta alle obiezioni. Ricordiamo innanzitutto che possiamo avere la causa meritoria, la causa efficiente e la causa esemplare. San Tommaso ci dice che chiaramente l’ascensione di Cristo, come già avevamo visto per la sua risurrezione, non agisce a modo di merito, perché si cessa di meritare con la morte. E dunque i misteri di Cristo che vengono dopo la sua morte non hanno più la causa meritoria; ma questo non vuol dire che non esercitano una causa. E qual è questa causa? È la causa efficiente. Come si esplica questa efficienza lo abbiamo visto, in particolare in questo art. 6. Ma attenzione: dire che l’ascensione non è più meritoria, perché è la conseguenza dei meriti in qualche modo della vita di Cristo, non vuol dire che essa non eserciti una causa.
Nella risposta alla seconda obiezione dell’art. 6, Tommaso dice: «La passione di Cristo, parlando propriamente, causa la nostra ascensione al cielo in quanto toglie l’ostacolo del peccato, ed è causa meritoria» (III, q. 57, a. 6, ad 2). Quindi la passione di Cristo «toglie l’ostacolo del peccato» e, in questo senso, ci merita la salvezza. «Invece l’ascensione di Cristo causa direttamente la nostra ascensione, quasi dando l’inizio del nostro capo, al quale le membra devono riunirsi» (ibidem). La passione di Cristo rimuove un ostacolo all’ascensione. Vediamo di nuovo l’insistenza di san Tommaso su questo punto: Cristo è direttamente la causa della nostra ascensione, in quanto è il capo che attira le membra.
Le considerazioni che si potrebbero fare sono tante. Non abbiamo ancora esaurito il mistero dell’ascensione al cielo o, meglio, la prossima volta, nella quaæstio 58, vedremo un aspetto legato all’ascensione, cioè la sessione di Cristo alla destra del Padre. Andremo quindi a commentare l’affermazione del Credo: «Siede alla destra del Padre». Vedremo come san Tommaso ci presenta questo ulteriore mistero.
L’Ascensione (II parte)
L’Ascensione è la manifestazione palese e gloriosa della divinità di Cristo e della sua regalità, un mistero volto ad accrescere la nostra riverenza. Le ricadute sulla liturgia. Il particolare della nube: il legame tra i due Testamenti.
L’Ascensione – Il testo del video
Gesù è risorto a una vita nuova, immortale e incorruttibile. Perciò era conveniente che, dopo la risurrezione, ascendesse al cielo. La sottrazione della sua presenza fisica: propedeutica alla crescita delle tre virtù teologali.
La causalità della risurrezione di Cristo – Il testo del video
Nell’ultima quæstio dedicata alla risurrezione del Signore Gesù, san Tommaso si domanda se essa sia causa della nostra risurrezione e, inoltre, della nostra giustificazione. Due articoli dalla densità teologica straordinaria.