L'arte di Carpaccio, dalla laguna al Cielo
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L’incantevole scenario della sua Venezia al culmine dello splendore, l’attenzione per la vita dell’uomo e la profondità spirituale delle storie religiose che ci racconta nelle sue tele, mostrano che l'artista veneziano “aveva davvero la verità nel suo cuore”.
Vittore Carpaccio faceva parte di uno “splendido trio” di pittori veneziani, insieme con Giovanni Bellini e Tintoretto, autori capaci di insegnare “a guardare l’universo”. Probabilmente iniziò come apprendista nella bottega dei Bellini, lavorando sia con Gentile che con Giovanni. Il suo cognome è una forma italianizzata derivata da “Scarpaza”, nome della famiglia di mercanti veneziani da cui l’artista nacque intorno al 1465, e lo userà per firmare le sue opere fino alla morte, nel 1525 o 1526.
Autore di dipinti per la devozione privata così come di grandi cicli narrativi per le confraternite di Venezia, Carpaccio si è ispirato all’ambiente davvero unico della sua città natale, vivacizzata da una società cosmopolita, che ha rappresentato con grandiose architetture, con palazzi ricoperti di marmo e un brulicare di personaggi di ogni tipo, in atmosfere luminose, rappresentate secondo il suo gusto poetico, quasi fantastico. Ma sono soprattutto i suoi prestigiosi teleri (tele di vaste proporzioni), che raffigurano miracoli e vite di santi e martiri, ad attrarci per quella loro stupefacente capacità di farci rivivere la storia sacra in ambientazioni immaginifche, arricchite di episodi e dettagli contemporanei.
Insieme alla splendida mostra allestita a Palazzo Ducale di Venezia, aperta fino al 18 giugno, per avere una visione completa del grande pittore rinascimentale si raccomanda di recarsi anche alle Gallerie dell’Accademia per ammirare il Ciclo di sant’Orsola e alla Scuola degli Schiavoni, dove sono collocate Le storie di san Giorgio e san Girolamo. I restauri delle due narrazioni sono stati effettuati in loco anche grazie alla proficua collaborazione della Fondazione dei Musei Civici di Venezia con la National Gallery of Art di Washington. Opere così monumentali non potevano certamente essere trasportate nel palazzo dei Dogi, ma sono richiamate dai molteplici disegni dell’esposizione, che mostrano con dovizia di particolari il minuzioso lavoro di preparazione compiuto dal maestro.
Non mancano opere dal contenuto più enigmatico, come Caccia in valle, manifesto della mostra, dove due cortigiane, vestite con abiti elegantissimi, attendono annoiate su un balcone la fine della caccia agli uccelli acquatici e della cattura di pesci nella laguna di Venezia, condotta dai loro aristocratici compagni. Ma, in questo periodo pasquale, nella mostra veneziana colpisce in modo particolare dai bellissimi soggetti religiosi.
La Meditazione sulla passione di Cristo (proveniente dal Metropolitan Museum of Art di New York) coinvolge profondamente. Il Salvatore è ritratto al centro, seduto su un trono diroccato, apparentemente addormentato e sul punto di risvegliarsi, ancora con le ferite della Crocifissione. A destra Giobbe, a sinistra san Gerolamo, come sappiamo ambedue personalmente segnati dalla sofferenza, comunicano con lo sguardo la certezza che lo straziante sacrificio di sé di Cristo ha redento l’umanità dal peccato e dalla morte. Il paesaggio intorno è ricco di simbolismi, sul male dell’uomo da una parte e dall’altra sulla promessa della salvezza. Che commozione poi, la tavola con Cristo morto sorretto da angeli: Gesù, privo di vita, è seduto sul bordo di un sarcofago e l’angelo sulla destra si affretta a sorreggere la testa cadente del Salvatore.
Uguale emozione suscita la Madonna col bambino (proveniente dalla National Gallery di Washington) con Maria che, con sollecitudine, interrompe la lettura per guardare dolcemente il Figlio. Come una qualunque mamma, ma con abiti sontuosi adatti alla Regina dei Cieli. Il bambino con una manina benedice, e con l’altra afferra il mantello della Vergine, come tutti i bimbi si aggrappano al vestito della madre. Del resto, che Lui sia il Redentore è ben evidente nel bellissimo Salvator mundi in cui Cristo appoggia la mano su una sfera di vetro trasparente (che rappresenta il mondo) di una purezza immacolata, forse ispirata alla maestria delle vetrerie di Murano.
Umanissima e insieme misteriosamente affascinante è La fuga in Egitto, in cui l’episodio evangelico è rappresentato con movenze cinematografiche. Giuseppe infatti, con il bastone, cammina a grandi passi sulla strada sassosa da Betlemme verso l’Egitto, costringendo l’asino ad affrettarsi. Maria, avvolta in un manto stupendamente decorato, abbraccia tranquilla il suo figliolo con il ditino in bocca, mentre cavalca l’animale all’amazzone. Il paesaggio sullo sfondo è di una dolcezza indescrivibile. E pensare che quel bambino così sereno, protetto dalla sua mamma e condotto in salvo dal suo papà, sarà poi quell’uomo disteso sule ginocchia di sua madre nella tavola Pietà, in cui la Madonna piange sulle sue membra bianchissime e contempla il volto del Figlio dai capelli riversi, pendenti aldilà della sua mano, che gli sorregge il capo.
La dimensione religiosa era profondamente connaturata in Carpaccio, che la esprime anche nelle sue raffigurazioni più apertamente politiche e celebrative, legate alla grandezza della sua città. Così, ne Il leone di San Marco, il leone alato simbolo dell’evangelista e della Repubblica di Venezia, si erge sullo sfondo del mare con le imponenti navi e i preziosi palazzi. Poggia le zampe su un libro con l’iscrizione ben visibile “Pace a te Marco evangelista mio” (Pax tibi Marce Ævangelista meus), in riferimento alla profezia angelica fatta a Marco, secondo cui avrebbe trovato il suo luogo di riposo terreno a Venezia: grande destino di una città di cui Carpaccio si riteneva degno pittore del “vero" e del sacro.