L'anti-Obama: Trump fa una scelta di campo nel Golfo
Tanti tabù violati nel discorso di Trump a Riad, di fronte ai capi di Stato di 55 paesi a maggioranza musulmana. Un discorso isolazionista ("non aspettate il potere americano") in cui invita gli interlocutori a "spazzar via" il terrorismo islamico, chiamato tale. E poi la dichiarazione di ostilità all'Iran, all'indomani delle elezioni vinte dal riformista Rouhani.
Primo viaggio di Trump all’estero, la scelta ricade sull’Arabia Saudita. E proprio nel paese da cui provenivano quasi tutti i terroristi dell’11 settembre, il presidente degli Usa pronuncia un discorso duro contro il terrorismo islamico, una sorta di risposta, a scoppio ritardato, del discorso che aveva pronunciato Obama al Cairo, all’inizio del suo primo mandato. E non manca una vera dichiarazione di guerra (politica, per ora) all’Iran, fresco di elezioni presidenziali.
“Spazzateli via dalla faccia della terra” è il caloroso invito che Trump rivolge ai musulmani per affrontare i terroristi. Sbaglia chi si aspettava una politica neo-coloniale. Il discorso del presidente repubblicano è un’affermazione dei principi isolazionisti: “Non siamo venuti qui a dare lezioni a nessuno”, ha dichiarato a Riad, di fronte ai capi di Stato di 55 paesi a maggioranza musulmana. La responsabilità della lotta al terrorismo spetta ai paesi in cui il terrorismo alligna. Lo scontro in corso “non è uno scontro di civiltà”, ma “una battaglia fra il Bene e il Male”. “Un futuro migliore sarà possibile se le vostre nazioni scacceranno gli estremisti e i terroristi”. Senza necessariamente aspettare che arrivi un aiuto dal “potere americano” prima di “fare la loro parte”. Nel discorso, oltre a concetti assoluti come Bene e Male, che parevano morti e sepolti nella precedente amministrazione, sono stati violati altri tabù. Trump ha infatti parlato esplicitamente di “estremismo islamico”, di “terrorismo islamico” e di “islamismo”, parola, quest’ultima, su cui alcuni giornalisti si stanno ancora interrogando. Islamismo indica il pensiero dell’islam totalitario, quello dei Fratelli Musulmani ad esempio. Ed è una definizione che non era mai uscita dall’ambito dei think tank conservatori, finora. Anche perché implica ammettere che l’islam ha una sua variante politica totalitaria, un concetto che l’amministrazione Obama aveva sempre rifiutato di ammettere. Non c’è stato alcun riferimento alla democrazia e ai diritti umani, in paesi in cui la prima è ovunque assente e i secondi sono repressi in modo sistematico. Sono “problemi loro”. C’è tuttavia un accenno alla repressione dei diritti delle donne. Ma più che nel discorso, semmai, questo viene espresso dalla presenza stessa della moglie Melania, che non indossa il velo nemmeno quando saluta i sovrani sauditi.
La visita di Trump all’Arabia Saudita giunge all’indomani delle elezioni presidenziali in Iran. Sono state vinte dal presidente riformista Hassan Rouhani, come era abbastanza prevedibile. Ma la vittoria del presidente preferito dai governi europei non ha smosso di un millimetro l’amministrazione Usa. Nei confronti del regime di Teheran non sono stati espressi troppi complimenti, ma dure condanne. Rex Tillerson, segretario di Stato, una volta a Riad ha rivolto una sorta di appello al rieletto presidente: la smetta di finanziare il terrorismo e le “forze di destabilizzazione attive nella regione”, riferendosi alle formazioni di Hezbollah, alle Forze Qods, alla miriade di milizie sciite irregolari filo-iraniane (e spesso guidate direttamente da ufficiali regolari iraniani) operative in Iraq e Siria e Yemen. Gli Usa, con la visita a Riad, hanno fatto una chiara scelta di campo nella guerra fredda nel Golfo: hanno optato definitivamente per la sponda Ovest, quella delle monarchie arabe sunnite contro la repubblica islamica iraniana sciita. Con un accordo da 110 miliardi di dollari, gli Usa forniranno ai sauditi navi, carri armati e difese anti-missile. E non ci sono ambiguità di sorta: Tillerson ha dichiarato esplicitamente che servono a difendersi dall’Iran. Anche perché, proprio a poche ore dall’arrivo del presidente americano, un missile (lanciato dallo Yemen, dalle milizie Houti filo-iraniane) è stato intercettato e abbattuto nello spazio aereo saudita.
Obama avrebbe fatto l’opposto. Avrebbe sfruttato la vittoria di Rouhani per tendere la mano all’Iran, ottenere altri accordi. E così facendo, però, avrebbe minato ulteriormente la fiducia degli alleati sunniti, giunta ai minimi termini durante la sua amministrazione. Trump, per recuperare la fiducia perduta, chiude qualsiasi porta al dialogo con la sponda Est del Golfo. Evidentemente sa che potrà farne a meno, quando si tratterà di rimettere mano al negoziato sulla Siria, dove l’Iran (assieme alla Russia) fa ancora la parte del leone: milizie, truppe sul terreno, ufficiali, consiglieri e l’appoggio politico a Bashar al Assad. Ma sa veramente che potrà farne a meno? O si tratta della solita tecnica negoziale di Trump, la stessa adottata con la Cina: sparare tanto per poi tornare a dialogare dopo aver spiazzato la controparte?
Solo nei prossimi mesi si potrà vedere quale è realmente il gioco dell’amministrazione Usa. Però una cosa è già chiara: indipendentemente dal presidente in carica al momento, l’Iran è andato avanti indisturbato nel suo disegno egemonico. Anche perché sia le forze Qods impegnate all’estero, che tutto l’apparato industriale che si occupa del programma missilistico e nucleare, rispondono direttamente all’ayatollah Khamenei. E non al presidente Rouhani. L’Iran, in questi anni, ha approfittato della minaccia posta dall’Isis per: infiltrare Iraq e Siria, stabilire un controllo politico pieno sul Libano, ha continuato a sviluppare il suo programma missilistico e, probabilmente, non ha neppure rinunciato del tutto a quello nucleare, nonostante le rassicurazioni seguite all’accordo di Vienna con Obama. Da Israele (oggi Trump sarà a Tel Aviv) e da tutte le monarchie del Golfo, gli appelli a fermare l’Iran si facevano sempre più pressanti. Trump, prima o poi, avrebbe dovuto dare una risposta.