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L’amore immortale ed eterno di Orfeo per Euridice

Nelle Georgiche di Virgilio compare uno dei miti fondamentali della cultura occidentale, tra i più belli e tragici dell’antichità: quello di Orfeo ed Euridice. 

Cultura 18_11_2018

Ci sono personaggi, mitici o storici, che sono diventati rappresentativi di un’epoca, di un popolo, dei suoi valori e delle sue tradizioni. Gilgamesh, Ulisse, Abramo, Mosè, Enea, Perceval, san Francesco, Orlando, Gargantua, Candido, Emilio, Ortis e Faust sono una manifestazione della cultura di un popolo o di un secolo, incarnano la visione del mondo, il punto di riferimento ideale o alcune tendenze di cultura che si affermeranno negli anni successivi.

Enea è tra questi, protagonista di un’opera immortale, l’Eneide, uno di quei capolavori che rappresentano un’epoca e, nel contempo, mostrano i vertici artistici cui perviene l’uomo quando, vivendo intensamente il proprio tempo, riesce a superarlo per comunicare una verità che è valida in ogni tempo.

La grandezza e l’importanza di quest’opera per la civiltà e la cultura occidentali impongono che la si approfondisca in un percorso a parte.

Ora ci soffermiamo su un altro poema di Virgilio, di natura didascalica, composto tra il 36 e il 29 a. C. per promuovere il ritorno alla vita dei campi in una circostanza storica come il frangente della conclusione delle guerre civili, quando le campagne sono in gran parte spopolate e abbandonate e pochi vi sono rimasti a lavorare ancora le terre. Le Georgiche sono strutturate in quattro libri di esametri, che approfondiscono l’agricoltura, la viticoltura, l’allevamento, l’apicoltura.

Nella parte finale del IV libro compare uno dei miti fondamentali della cultura occidentale, tra i più belli e tragici dell’antichità: quello di Orfeo ed Euridice. L’apicoltore Aristeo assiste alla moria delle sue api. Su consiglio della madre allora chiede al dio marino Proteo i motivi di una tale sciagura. Scopre così che sta espiando una grave pena commessa. Rivela, infatti, il dio:

Ahi! la misera (Euridice) mentre fuggiva da te
precipitosa lungo il fiume, non vide il crudele
serpente, che giaceva nascosto fra l’erbe lungo la sponda.

Euridice è morta a seguito del morso di un serpente, inseguita da Aristeo che cerca di arrecarle violenza. Il coro delle driadi piange la scomparsa della compagna riempiendo di dolore le valli e le montagne. Anche i campi della Tracia, il fiume Rodope, la popolazione dei Geti piangono la ninfa scomparsa così precocemente, che vede svanire la bellezza e la giovinezza.

Orfeo cerca dapprima conforto nell’arte e nel canto accompagnato dalla lira. All’alba e al tramonto piange la sua dolce sposa, da solo, in mezzo alle solitudini immense. Quale potenza hanno la parola e l’arte che possono addirittura eternare il ricordo e la memoria di chi ci ha lasciato! Attraverso i versi la Teresa Fattorini di Leopardi, figlia del cocchiere di casa, vive per sempre nel nome di Silvia mutuato dall’Aminta di Tasso.

Orfeo non riesce, però, a trovare consolazione nei versi. Desidera la salvezza dell’amata e per questo è disposto a scendere nell’oltretomba per incontrare gli dei ed implorarli di poter avere di nuovo con sé Euridice. Entra allora

nelle fauci del Tenaro, porte profonde di Dite
e nel bosco nebbioso di oscura paura,
e affronta i Mani e il re tremendo e i cuori incapaci
di impietosirsi alle preghiere umane.

Vuole commuovere il re e la regina dell’Ade, Plutone e Proserpina, per ricondurre così Euridice sulla Terra. Incapaci di impietosirsi e di provare misericordia, mossi, tuttavia, dalla bellezza del canto di Orfeo, gli dei cedono, infine, alle sue richieste.

È impossibile cercare di ricostruire questo primo Ade virgiliano, che cronologicamente precede quello che verrà descritto nell’Eneide. Le anime dei morti, «leggere […], immagini opache», si fanno incontro a Orfeo. Sono

madri e con esse mariti, nonché dei magnanimi eroi
spettri ormai privi di vita, fanciulli e illibate fanciulle,
giovani posti sui roghi dinanzi allo sguardo dei padri.

Virgilio riprodurrà pedissequamente questi versi nella successiva catabasi di Enea quando l’eroe romano incontrerà le anime dei morti prima del tempo. L’aria che si respira qui è, però, quella dell’Oltremondo omerico dove non sono comminate pene o elargiti premi, ma le anime sono impalpabili, ombre di ciò che furono nella vita terrena.

Nella narrazione non compare neppure una geografia elementare dell’Ade. Pochi sono i luoghi citati: l’Èrebo, antico luogo dei morti, il canneto del lago Cocito colorato di nero fango, l’immobile e odiosa palude Stigia. Alcuni di questi luoghi saranno presenti nella Commedia, trasformati e addomesticati all’esigenza artistica del capolavoro dantesco.

Animano questi lugubri ambienti «le Eumenidi, avvolte le chiome di serpi cerulee», Cerbero con le sue tre teste bramose e anelanti, sempre desiderose di mangiare. Virgilio descrive questi personaggi con efficace sintesi senza narrare storie o vicende, come accadrà, invece, nell’Eneide in cui addirittura la Sibilla addormenterà le tre gole di Cerbero con una focaccia soporifera.

Non sono presentate neppure le pene cui sono sottoposte le anime dell’Ade: sola ad essere nominata è la condanna di Issione, che gira ininterrottamente legato a una ruota. Di fronte al canto di Orfeo anche la ruota si ferma.

Orfeo supera la prova. Grazie alle sue abilità canore ottiene dalle divinità dell’Ade di riportare l’amata in vita, a condizione che lui non si volti fin quando non avrà superato la soglia che separa il mondo sotterraneo da quello superiore. Mentre ripercorre il tragitto a ritroso per ritornare in superficie, «un’improvvisa follia» s’impadronisce di «quell’incauto amante», «perdonabile senz’altro, se gli dei sapessero perdonare».

Orfeo si ferma e, «vinto ohimè nell’animo, osserva la sua Euridice ormai quasi sotto la luce, immemore». La sua impresa è stata vana. I patti stipulati con Plutone e Proserpina sono infranti e si ode per tre volte «un fragore dallo stagno dell’Averno».

Prima di svanire nel nulla «come fumo disperso nei soffi dell’aria», Euridice si rivolge ad Orfeo. Queste le parole che gli rivolge (nel testo in latino):

Quis et me […] miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? En iterum crudelia retro
Fata vocant, conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas!

In traduzione:

Chi ha rovinato me e te, o Orfeo,
quale dolore è così grande? Ecco di nuovo i crudeli fati
mi richiamano indietro nell’Ade, e il sonno annebbia i miei occhi che vacillano.
Ormai addio: sono trascinato, attorniato da una fitta notte
E protendendo ormai invano le mani incapaci di afferrarti verso di te.

Foscolo si ricorderà di queste parole quando dovrà parlare di sé, della sua lontananza dalla tomba del fratello, del suo protendersi inutilmente verso Giovanni nel sonetto «In morte del fratello Giovanni». Nascerà, così, il verso: «Ma io deluse a voi le palme tendo». La chiara allusione al testo virgiliano e il richiamo alla perdita di Euridice hanno come obiettivo quello di arricchire di significazioni il nuovo testo, di riecheggiare il vecchio mito al lettore attento, sovrapponendo l’antica storia alla nuova. Il dolore per il fratello è, così, coscientemente o incoscientemente paragonato a quello della morte della propria amata, addirittura una seconda volta, dopo che lei è richiamata in vita: è, quindi, la sofferenza più atroce e ingiusta che si possa provare. Questo all’incirca potrebbe essere il senso del richiamo foscoliano, definito con termine tecnico «allusione».

Siamo allora giunti alla conclusione della storia di Orfeo ed Euridice. Narrano che Orfeo per sette mesi abbia pianto

sotto un’alta rupe presso l’onda dello Strimone deserto,
e abbia meditato la propria sorte sotto le gelide stelle,
placando le tigri e movendo le querce col canto. […]
Nessuna passione amorosa, nessun matrimonio piega il suo animo.
Solo, percorre i ghiacci iperborei, il Tanai ricoperto di nevee i campi mai privi dei ghiacci rifei, cercando Euridice
rapita e gli inutili doni di Dite.

Tragica è la fine di Orfeo. Le baccanti, che venerano Dioniso, lo invitano ai riti del dio. Ricevuto il rifiuto di Orfeo, lo fanno a pezzi, ne spargono per i campi le parti dilaniate del corpo. La sua misera testa, finché ne è capace, grida il nome di Euridice, rotolando per il fiume Ebro in Tracia.

Una volta conosciute le ragioni della moria delle sue api, Aristeo offrirà in sacrificio dei buoi alle ninfe driadi, compagne di Euridice. Dalle loro viscere nasceranno giganteschi sciami di api.