L'America Latina svolta a destra e abbandona i populisti
Il partito di centrodestra del presidente Macri vince la maggioranza parlamentare in Argentina. Ora il capo di Stato ha carta bianca per le sue riforme, in un paese che versa ancora in gravi condizioni economiche. Non è un caso unico: in tutti i paesi sudamericani le destre stanno prevalendo. Ecco le ragioni di una svolta.
Sulla stampa europea non ha avuto il giusto risalto la vittoria del partito del presidente Antonio Macri alle elezioni per il rinnovo parziale di Camera e Senato di domenica scorsa in Argentina. Cambiemos, il partito di centrodestra del capo dello Stato, ha conquistato il 40,6% dei voti ed è arrivato primo in 15 delle 24 province: un risultato mai ottenuto prima da un partito diverso da quello peronista. Ha conquistato tutte e 5 le province più popolose, dove vivono i due terzi di tutti gli argentini (Buenos Aires metropolitana, Buenos Aires città, Cordoba, Santa Fe e Mendoza), ma anche roccaforti peroniste in regioni povere lontane dalla capitale come Jujuy, Salta, El Chaco e la Rioja. Persino nella provincia di Santa Cruz in Patagonia, culla del potere dei Kirchner (Nestor e la moglie Cristina Fernandez, in successione capi di Stato rispettivamente dal 2003 al 2007 e dal 2007 al 2015 come esponenti della sinistra peronista), Cambiemos ha avuto partita vinta. Alla Camera il partito del presidente è passato da 86 a 107 seggi e al Senato da 15 a 24. Per la prima volta negli ultimi 15 anni il peronismo ha perso la maggioranza assoluta al Senato. Nel suo collegio Cristina Fernandez Kirchner ha perso con 10 punti di svantaggio contro il candidato di Cambiemos.
Macri, che due anni fa aveva vinto a sorpresa il ballottaggio delle elezioni presidenziali contro il candidato dei peronisti uniti (cioè quelli del partito Giustizialista tradizionale insieme a quelli che avevano seguito Nestor Kirchner e poi la vedova di lui Cristina nel loro Frente per la Victoria, più a sinistra), e che ha governato finora senza maggioranza, vede adesso la strada spianata per realizzare le riforme economiche già annunciate nel 2015 e secondo El Pais si è trasformato nel «leader più forte dell’America latina». Il fatto curioso è che nessuno dei risultati di questi due anni di governo sembrava propedeutico ad un successo così schiacciante ai danni della sinistra peronista: il tasso di inflazione è tendenzialmente del 22% annuo, il secondo del continente dopo quello stratosferico del Venezuela; il tasso di interesse del denaro è un proibitivo 26%; la bilancia del commercio con l’estero segna un rosso di 6 miliardi di dollari e il deficit del bilancio è pari al 5% del Pil. Pil che l’anno scorso è diminuito del 2%, mentre la povertà aumentava e investiva il 32% degli argentini. Le cose sono un po’ migliorate nei primi nove mesi di quest’anno, che hanno visto il Pil tornare alla crescita (più 3% tendenziale) e il tasso di povertà diminuire di 3,6 punti. È bastato questo perché i sondaggi si raddrizzassero e pronosticassero la vittoria che si è poi materializzata nelle urne.
In realtà i motivi della vittoria sono due, e si possono estendere a tutti i paesi dell’America latina dove i partiti e i candidati di destra o di centro-destra hanno inflitto o sono sul punto di infliggere sconfitte ai partiti della sinistra populista: non solo Argentina, ma Perù (dove l’hanno scorso al ballottaggio sono arrivati due esponenti della destra, ed è risultato vincente l’ex ministro Pedro Pablo Kuczynski), Brasile (dove alle amministrative dello scorso anno il Partito dei Lavoratori degli ex presidenti Lula e Dilma Rousseff ha vinto solo in uno dei 18 capoluoghi in lizza, e ha perduto San Paolo, la città più grande del Brasile), Venezuela (dove prima delle elezioni farlocche all’assemblea costituente del luglio scorso il parlamento era dominato dal fronte dell’opposizione al presidente chavista Maduro, che aveva sgominato gli avversari alle elezioni del dicembre 2015), Bolivia (dove il presidente uscente Evo Morales ha perso l’anno scorso un referendum in cui chiedeva agli elettori se erano favorevoli a cambiare la Costituzione per permettergli di candidarsi alla presidenza per la quarta volta), l’Uruguay (dove quest’anno per la prima volta dal 1994 i sondaggi danno in vantaggio il conservatore Partito nazionale contro il Frente amplio della sinistra di cui è esponente il presidente Tabaré Vazquez) e probabilmente a novembre il Cile, dove i sondaggi danno in vantaggio e vincente al ballottaggio l’ex presidente di destra Sebastian Piñera dopo quattro anni di presidenza della socialista Michelle Bachelet.
Il primo motivo attiene l’impopolarità della sinistra populista, che ha cavalcato l’onda degli alti prezzi delle materie prime (soprattutto il petrolio) nel primo decennio del XXI secolo, ma non ha saputo affrontare la situazione creata dalla flessione degli stessi prezzi a causa della crisi finanziaria iniziata nel 2007 e dal rallentamento della crescita cinese che trainava il rialzo dei prezzi. I populisti hanno distribuito a pioggia e con criteri clientelari la manna dei petrodollari, riducendo anche di molti punti i tassi di povertà e aumentando quelli del consumo; ma non avendo investito nella diversificazione e nella competitività del sistema economico, bensì soltanto sullo stimolo della crescita attraverso l’aumento dei consumi, hanno visto l’economia e il welfare andare in panne nel momento in cui i prezzi delle materie prime sono precipitati. Il numero dei poveri è tornato ai livelli precedenti così come quello dei disoccupati. A quel punto del chavismo e del kirchnerismo sono rimasti soltanto i tratti salienti dell’autoritarismo, degli attacchi alla libertà di stampa, del clientelismo, degli scandali a base di tangenti di cui sono stati accusati Cristina Kirchner, Dilma Rousseff, Ignacio Lula, ecc.
Il secondo motivo del successo o della posizione di vantaggio nei sondaggi degli esponenti della destra e del centro-destra dipende dal fatto che quest’area politica sembra avere imparato la lezione del passato, e non appoggia più la sua azione di politica economica esclusivamente sulle politiche liberiste. Il caso di Macri a questo riguardo è esemplare: chiuse le pendenze coi fondi di investimento che avevano fatto causa all’Argentina dopo il crac del 2001, il presidente è riuscito a riaprire il paese agli investimenti e ai prestiti internazionali, e con queste risorse finanziarie ha mantenuto alta la spesa pubblica, compresi programmi mirati alla lotta alla povertà. Naturalmente il prezzo è stato l’accumularsi di nuovo debito pubblico, che Macri intende rendere sostenibile e contenere grazie alla ripresa economica che conta di innescare attraverso riforme fiscali e del mercato del lavoro.
Un ultimo motivo della perdita di consensi da parte delle forze di sinistra è legato al loro orientamento a favore dell’aborto e del matrimonio fra persone dello stesso sesso, in un contesto generale che vede una crescita sostanziale delle Chiese pentecostali ed evangeliche (i protestanti latinoamericani sono passati dal 9 al 19% della popolazione totale fra il 1970 e il 2014), quasi tutte fortemente ostili a questo genere di legislazioni. L’istituto di sondaggi Latinobarometro segnala che fra il 2011 e il 2016 la percentuale di latinoamericani che si definiscono di destra è cresciuta dal 19 al 28%, mentre quella di chi si considera di sinistra è scesa al 20%. Ha commentato Gerardo Lissardy per la Bbc: «Gli esperti credono che dietro questo fenomeno ci siano varie spiegazioni: la fine del boom dei prezzi delle materie prime che ha causato problemi economici a vari governi di sinistra, una maggiore domanda di ordine e "mano pesante" contro la delinquenza, e anche i progressi regionali della fede evangelica, con posizioni conservatrici sui temi sociali come l’aborto o il matrimonio omosessuale».